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di Mauro Piras

 

Domenica 16 febbraio, Walter Veltroni ha pubblicato sul Corriere della sera un articolo che ricorda la vicenda del militante neofascista Sergio Ramelli, aggredito a Milano il 13 marzo 1975 a colpi di chiave inglese, e morto il 29 aprile successivo. L’articolo si inserisce in una serie che ricorda le vittime della violenza politica degli anni settanta. L’intento è quello di mostrare l’assurdità di quelle morti, per qualsiasi ragione venissero provocate e da qualsiasi parte. È un punto di vista “umano” (se volete un po’ mieloso e sentimentale), ed è anche un punto di vista “democratico”: le istituzioni democratiche si sono salvate superando la crisi di quel periodo di violenza politica, è giusto riconoscere il destino di tutte le vittime, chiudere divisioni ideologiche che sembrano catalogarle a seconda del loro credo e sembrano legittimare, da una parte o dall’altra, l’uso della violenza. Il punto di vista morale-umano, un po’ prepolitico, serve a far vedere, che si parli di Valerio Verbano o di Sergio Ramelli, che la democrazia non può tollerare queste morti.

L’articolo di Veltroni è stato subito attaccato duramente da Christian Raimo, prima in alcuni post su Facebook, poi in un articolo pubblicato il 17 febbraio su Jacobin Italia e ancora in altri post. L’attacco di Raimo sembra riportarci, invece, alla logica della contrapposizione secca amico-nemico, rossi-neri, che non chiude mai questa sorta di “guerra civile larvata” e ostacola una piena legittimazione delle istituzioni democratiche. Non a caso un articolo di reazione su Primato Nazionale (organo che non nasconde le sue simpatie neofasciste) riconosce in Raimo un “nemico migliore”, perché “preclude ogni conciliazione” tra “combattenti avversari”. L’illeggibile (politicamente) articolo su Primato Nazionale ci dà però la chiave di volta del problema: “Raimo ci ricorda che Ramelli non è di tutti, non è suo, per esempio. E questo è un bene, per lui e per noi, così come è un bene per entrambi che la memoria di Valerio Verbano sia sua e non nostra”. Invece questa visione è inaccettabile. Io voglio poter dire: Ramelli e Verbano sono morti “miei”, come cittadino di una democrazia ferita. Contestualizzare e comprendere la violenza politica degli anni settanta deve servire per rifiutare la contrapposizione “noi”-“loro” e rendere residuali queste posizioni che si interpretano come sempre in lotta contro le istituzioni democratiche, allargando invece il consenso di chi in quelle istituzioni si riconosce. Per questo è giusto commemorare anche le “vittime di destra” (a partire dall’orrore del rogo di Primavalle).

Quali sono le obiezioni di Raimo contro l’articolo di Veltroni?

Nel primo post c’è un attacco alla persona: è scandaloso che sia un ex dirigente politico a fare questo tipo di analisi, si dice più o meno. Ma non viene detto nulla sul contenuto dell’analisi e sul perché sarebbe scandalosa; l’argomento ad personam non ha nessun valore, anzi è del tutto sensato che politici formatisi in quegli anni, coetanei dei giovani che hanno praticato la violenza, riflettano su questa. Poi, in un altro post Raimo ha messo le foto delle commemorazioni della morte di Ramelli fatte ogni anno dai “camerati”, con iconografie e liturgie fasciste. Tutto vero, certo, ma che cosa c’entra? Il fatto che dei gruppetti di neofascisti celebrino ogni anno il “camerata Ramelli” non toglie niente all’obbligo che hanno le istituzioni democratiche di ricordare questa vittima, come le altre, per condannare quella stagione di violenza politica.

Nell’articolo su Jacobin Italia c’è un’analisi più complessa.

Raimo accusa Veltroni di mescolare in un “minestrone indigesto” i recenti ritorni di antisemitismo con le vicende degli anni settanta. È vero che sono fenomeni ben diversi, accomunati solo dall’odio, concetto un po’ generico; ma è un aspetto marginale dell’articolo di Veltroni, e comunque la sfera pubblica democratica si tutela se si cerca di escluderne atteggiamenti violenti di ogni tipo.

Viene poi l’accusa più importante: Veltroni, invece di fare una analisi storica e politica, propone una visione “mielosa, astorica e vischiosamente memorialistica, omologante, in cui esistono solo le vittime, tutte uguali e confuse”; abbiamo già visto perché invece questo non è un problema. Ritorniamoci. Al di là della ricostruzione storica e politica, la democrazia, che esclude la violenza dal confronto politico, deve commemorare le vittime di una violenza politica antidemocratica. Il punto è questo: la violenza politica è antidemocratica per definizione, perché nega il confronto tra parti che si riconoscono legittime, e lo è specificamente quando viene da posizioni che hanno come obbiettivo il rovesciamento violento della democrazia rappresentativa, da qualsiasi parte provengano. Non serve a nulla, come fa Raimo, citare liste di filosofi che hanno denunciato l’abuso della figura della vittima: qui il problema non è ricordare le vittime per trasformarle in santini, ma denunciare, attraverso le loro vicende, la dissociazione autistica tra idea e persona che ha generato quella violenza. Quella dissociazione per cui posso uccidere una persona perché rappresenta una certa ideologia, che io combatto, e non vedo in quella persona la sua esistenza concreta, la sua vita, la sua esperienza: non vedo che quando sto “colpendo il nemico” sto, in realtà, solo uccidendo una persona.

Raimo cerca poi di ricostruire un contesto più ampio. Negli anni settanta, dice, la militanza politica è ovunque, e la violenza politica fa parte della militanza. È “un’età trasfigurata dalla militanza anche violenta, [in cui] c’erano milioni di persone che pensavano di poter trasformare la realtà attraverso una rivoluzione (accadeva in altri paesi) o di difendersi dalla violenza dello Stato (era un’ipotesi che in altri paesi – di fatto tutto il mondo mediterraneo e latino – portava a dittature feroci)”. Questo è il contesto di cui si dovrebbe tenere conto, secondo Raimo, per spiegare il fenomeno della violenza politica e collocare nella giusta prospettiva quella di sinistra e quella di destra. Come dire: l’aspirazione rivoluzionaria delle masse (“milioni di persone”) da una parte e la paura della violenza di Stato (la “strage di Stato”, per intendersi) dall’altra spiegano l’adesione diffusa all’uso della violenza nella militanza di sinistra. Raimo, ovviamente, chiarisce che spiegare non significa giustificare. Certo, va bene. Ma questo tipo di analisi serve a leggere la violenza di sinistra come una sorta di reazione “necessaria”, dovuta alle “circostanze” (la stessa teoria delle “circostanze” che giustifica il terrore giacobino nella interpretazione marxista della Rivoluzione francese), collocando invece la violenza di destra proprio tra quelle circostanze. Insomma, è la divisione tra il bene e il male (anche se il bene, certo, ha esagerato nell’usare la violenza), tra “noi” e “loro”. È quella perfetta dinamica amico-nemico che alimenta all’infinito una specie di guerra civile larvata e la delegittimazione delle istituzioni democratiche, e che piace tanto, non a caso, agli stessi neofascisti. Tutta questa analisi andrebbe rivista, da due punti di vista: storico, per vedere se quella militanza va davvero letta con queste lenti (non mi pronuncio, non ne ho le competenze); filosofico-politico, per mostrare che tanto quel tipo di progetto rivoluzionario quanto la risposta violenta alla presunta “violenza di Stato” non sono lo sviluppo delle “forze veramente democratiche” ma sono la delegittimazione della democrazia rappresentativa e quindi la sua morte. La democrazia sopravvive e si rafforza con il lavoro umile nelle istituzioni e nello stato di diritto, con la sua costruzione lenta e faticosa, riconoscendo tutti gli interessi in gioco. Con la mediazione e soluzione di questi conflitti nelle istituzioni e nel difficile rapporto tra movimenti e istituzioni, non nelle fughe in avanti palingenetiche. La “moneta spicciola” della democrazia, dice Habermas. Per questo la democrazia non si riconosce nella “militanza politica anche violenta”, ma preferisce fare la figura della babbiona, un po’ buonista, rifiutare la violenza, cercare il dialogo, seguire la via delle leggi e del riconoscimento tra eguali; e preferisce quindi piangere le vittime di ogni parte, tutte le vittime, perché in questa violenza politica vede solo un deragliamento della convivenza civile.

Ecco perché non convince, e serve a poco, anche il seguito dell’analisi di Raimo, che cerca di mostrare come le vittime neofasciste siano state un po’, cinicamente, costruite dal movimento neofascista stesso, per darsi una nobiltà “rivoluzionaria” e “di popolo”, dopo che l’MSI si era compromesso troppo come partito dell’ordine, avvicinandosi alla DC e all’atlantismo. Una ricostruzione interessante, che altri potranno verificare o confutare. Però anch’essa va nel senso di dire: le masse rivoluzionarie sono di sinistra, e poiché sono masse e il sistema è oppressivo purtroppo è un po’ inevitabile che ci sia anche la violenza; gli altri sono solo una infima minoranza di fanatici asserviti al sistema, e manipolati da capi politici cinici. Anche questa lettura serve a dividere i caduti di qua e di là, e a non riconoscere come un dovere della democrazia, morale e politico, il ricordo anche dei morti “di destra”.

 

(Firenze, 19 febbraio 2020 – Pubblicato sulla rivista online Le Parole e le Cose)

 

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