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Referendum, perché votare Sì: tre domande e tre risposte

Stefano Ceccanti giovedì 3 Settembre 2020
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di Stefano Ceccanti

 

Ci sono tre domande ricorrenti che ci vengono poste e che meritano una puntuale risposta.

1- La prima è: ma perché voi sostenitori democratici del Sì non impegnate solo voi stessi ma addirittura chiedete una posizione netta del Pd in una vicenda complessa che ha visto tre voti per il No e solo quello definitivo per il Sì?

Prima di tutto perché, dopo il Sì in Parlamento, nella seconda e ultima lettura alla Camera, riteniamo che il Pd non debba lasciare dubbi sulla bontà e la coerenza della scelta compiuta assumendosi la responsabilità di dare agli elettori una indicazione chiara. Inoltre, la risposta si completa contestualizzandola in modo corretto.

I tre No delle letture iniziali nascevano dalla reazione a un’imposizione, dal rifiuto di ammettere alla discussione e al voto qualsiasi emendamento che non fosse solo numerico. Tant’è che avevamo studiato un ricorso alla Corte. Il Sì nella lettura finale stava all’opposto in un patto, in una mediazione, in un compromesso. Perché di patti, mediazioni, compromessi vive la democrazia parlamentare.

Chi ragiona in termini di principi non negoziabili non è al suo posto in un’assemblea rappresentativa. Ovviamente l’elasticità dei princìpi ha dei limiti oltre i quali l’elastico si spezza. Ma qui abbiamo realizzato un compromesso che integra i numeri dei parlamentari (numeri tradizionali dalla Commissione De Mita-Jotti alla proposta Pd del 2008) con riforme ulteriori che rientrano pienamente nei nostri principi, a cominciare dalla trasformazione del Senato in una vera Camera a suffragio universale, che non discrimina più sette classi di età di cittadini maggiorenni. Questo, il metodo delle riforme a tappe per compromessi successivi, è del resto la conseguenza della bocciatura della nostra riforma del 2016. Non abbiamo comunque aderito a proposte inaccettabili, non a caso ora ferme, quali la rinuncia al libero mandato parlamentare o un modello di referendum propositivo che rimanesse pensato in opposizione alla rappresentanza parlamentare: nessuna resa sui princìpi, quindi.

2- La seconda domanda è sugli esiti: ma così facendo rendiamo le due Camere ancora più simili e quindi rinunciamo a differenziarle e ad andare verso un monocameralismo politico?

In realtà, una volta svanito lo schema delle riforme organiche con una modifica drastica del Senato, rendendole uguali si può raggiungere per altra via lo stesso obiettivo. Come ha scritto sull’ultimo numero di “Rassegna Parlamentare” il vice-presidente emerito della Corte Enzo Cheli, due Assemblee del tutto simili possono essere fuse valorizzando il Parlamento in seduta comune, cominciando con l’attribuire solo ad esso il rapporto di fiducia e di sfiducia col governo.

Del resto la storia costituzionale è andata già nel senso della riduzione delle differenze perché quelle iniziali sono state presto viste come irragionevoli dagli stessi costituenti. La riforma del 1963 che ha fissato i numeri di deputati e senatori eliminò anche una delle differenze principali: il mandato di sei anni per il Senato uniformandolo a quello della Camera. Del resto quella differenza era stata neutralizzata sin da subito sciogliendo anticipatamente il Senato nel 1953 e nel 1958 per far coincidere le elezioni con quelle della Camera. Anche le leggi elettorali sono state progressivamente omogeneizzate per rispondere a affermazioni della Corte costituzionale. La questione del rapporto Stato-Regioni potrebbe essere poi risolta diversamente, costituzionalizzando la Conferenza Stato-Regioni.

3- La terza domanda è sugli esiti: ma non sarà che in caso di vittoria del Sì ci si accontenterà solo di questo, bloccando tutto, rinunciando a ben altre riforme?

Credo sia ben più probabile che accada il contrario. Se dopo la bocciatura di riforme organiche non dovesse essere approvata neanche una chirurgica, decisamente piccola e con numeri proposti per decenni, quale imprenditore politico oserebbe di nuovo sobbarcarsi varie letture parlamentari per rischiare poi di essere sconfitto in un referendum?

Solo il Sì, su una riforma parziale positiva, affiancata da altre integrative già in fase di approvazione, mantiene un’apertura reale, non benaltrista, ad altre riforme. Ovviamente, però, per dare il senso di uno spirito di sistema, il Pd, al momento di formalizzare il Sì, unica scelta coerente col proprio percorso, dovrebbe però non limitarsi alla riforma in questione e alle integrazioni già accolte da tutta la maggioranza, ma precisare il disegno progressivo. È necessario passare, dopo il 2016, a riforme a tappe, ma per battersi in modo efficace debbono essere esplicitamente inquadrate in un disegno complessivo.

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