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Salvini e Di Maio. La nuova politica sa molto di antico

Giovanni Cominelli sabato 25 Maggio 2019
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di Giovanni Cominelli

 

Di Salvini ovvero della comunicazione permanente, della propaganda pervasiva, del comizio volante, del selfie ossessivo in divisa… In realtà: del parossismo della politica e della sua onnipotenza presunta. Rispecchia lo spirito del tempo e lo alimenta.

 

Per Salvini non è la politica che deve servire le istituzioni, ma il contrario

Salvini gioca al rovesciamento del primato delle istituzioni rispetto alla politica. Le istituzioni del Paese – dal Ministero dell’interno, al Parlamento, alla Banca d’Italia…- sono pensate come appendici tecnico-amministrative della politica, manipolabili e smontabili a seconda delle urgenze propagandistiche del momento. Insomma, la politica di fazione ha il primato su tutto: lo Stato politico e lo Stato amministrativo sono soltanto delle servo-strutture.
Una tendenza naturale alla democrazia illiberale e al totalitarismo? Non solo di Salvini. E’ inscritta nella storia del rapporto tra politica e istituzioni in Italia. Istituzioni deboli e capo-partito-fazione forte non sono un’invenzione originale di Salvini. Appartengono alla lunga storia del Paese; donde il consenso di circa un terzo degli Italiani. Ed altrettanto lunga l’hanno anche i tentativi di spiegazione del “fenomeno fazioso”, che lo riconducono al clanismo, al familismo amorale, al “particulare” guicciardiniano, ma anche al puro machiavellismo, alla mancata Riforma protestante… L’effetto di tali interpretazioni storico-antropologiche è quello di rinchiuderci in un fatalismo rassegnato e/o di rivolgerci a qualche “podestà straniero”. Le cause sono più storicamente concrete e più vicine.

 

Sorgono leader forti. Ma che durano poco

Intanto, secondo un ritmo ciclico fatale, continuano a salire all’orizzonte dei leader politici che promettono di tirare fuori il Paese dalle secche del declino e del non-governo in forza della propria visione, della propria personalità, del proprio seguito mediatico. Ma il loro tempo è breve. Se pensiamo a leader forti quali Craxi, Prodi, Berlusconi, Renzi, tra albe, meriggi e tramonti non hanno passato più di cinque anni. Anzi, sempre di meno. Il prossimo tramonto, dunque, tocca a Salvini. Eppure Craxi, Berlusconi e Renzi avevano raggiunto la consapevolezza che la volontà di potenza non bastava e che occorreva riordinare e ricostruire le istituzioni, così che divenissero e fossero la casa di tutti gli Italiani, prima e dopo la politica partitica.
Tuttavia, il contesto e le modalità delle proposte di riforma istituzionale hanno finito per offrire il pretesto alla parte più conservatrice del Paese, guidata principalmente da La Repubblica e dal Corriere della sera, di scatenare campagne vittoriose contro “l’uomo solo al comando”. Le proposte sono potute apparire come l’ennesima espressione e la continuazione con altri mezzi della volontà politica di potenza.

 

La politica come onnipotenza

Alle spalle della tradizione culturale italiana, sta, in effetti, la concezione della politica come onnipotenza. Essa è nata agli inizi dell’Italia liberale. La costruzione dello Stato-nazione non ha coinvolto che una minima parte degli Italiani. Nelle elezioni del 27 gennaio 1861, gli abitanti erano 22.182.377; gli aventi diritto di voto – i maschi sopra i 25 anni, che pagassero le tasse da 40 lire in su – furono 419.938; i votanti effettivi 239.583; i voti validi 170.567. Di questi, circa 70.000 erano impiegati pubblici, “obbligati” a votare. L’approccio centralistico, sul modello francese, dell’aristocrazia-borghesia liberale piemontese non ha consentito di costruire la legittimazione delle istituzioni dello Stato politico.
Per tenere in piedi su un fragilissimo vertice una tale piramide rovesciata del consenso popolare, la ristrettissima classe dirigente, alla quale i filosofi neo-hegeliani tentavano generosamente di fornire una coscienza del proprio ruolo e destino, fece ricorso all’uso pervasivo e violentemente coercitivo dello Stato amministrativo: Amministrazione, Magistratura, Carabinieri, Esercito. Non, dunque, lo Stato politico, bensì lo Stato amministrativo ha tenuto insieme il Paese. Sta qui il peccato originale della nostra unità nazionale.
La Prima guerra mondiale operò una sanguinosa e certamente involontaria nazionalizzazione delle masse, alla quale il fascismo tentò successivamente di fornire l’espressione istituzionale di un nuovo Stato politico. Giovanni Gentile fu il teorico dello Stato-nazione come Stato politico: si trattava di statalizzare la nazionalizzazione delle masse.

 

La fazione-partito diventò Stato

Ciò che però realmente accadde fu l’esatto contrario: la fazione-partito si trasformò in Stato, ne occupò i gangli vitali. Lo Stato-nazione diventò lo Stato-partito. In ciò consiste, d’altronde, il totalitarismo fascista, nazista e comunista. All’indomani dell’8 settembre, con la rovina dello Stato politico e di quello amministrativo, fu il CLN dei partiti a ritentare la costruzione dello Stato politico e dello Stato amministrativo. Nonostante la frattura della cortina di ferro, che attraverso il sistema politico fin dal 1946, i partiti, collocati su fronti geopolitici opposti, riuscirono a progettare il nuovo Stato politico.
Tuttavia, esso rimase fatalmente debole quanto a legittimazione, perché reale e forte era quella partitica. L’antemurale dello Stato fu e restò quello della politica faziosa. Non più a partito unico totalitario, perché la faziosità fu equidistribuita su una pluralità di soggetti. La continuità con il modello culturale del fascismo è piuttosto evidente. Semmai, l’incapacità del PCI di staccarsi dal “campo socialista” accentuò la faziosità dei partiti di governo e la fatale tendenza storica dei partiti di governo a occupare le istituzioni di tutti.
Alla fine, delle due vocazioni che ha la Politica – quella dell’institution building e quella della fazione – è apparsa attiva solo quest’ultima. E come tale è stata vissuta e praticata dall’opinione pubblica e dai partiti. Chi ha provato a rispondere alla chiamata dell’institution buiding, affidando alla politica – e a chi sennò? – il compito di rinnovare, riformare, costruire le istituzioni di tutti, è stato eliminato fisicamente – è il caso di Aldo Moro – o politicamente, è il caso di Craxi, Berlusconi, Renzi…

 

Salvini e Di Maio, ovverosia il nuovo molto antico

Ora è arrivata al potere una nuova generazione – quella dei Di Maio e dei Salvini -, ma le sue illusioni sono antiche come la storia dell’Italia unitaria e della Prima repubblica. Il catalogo delle illusioni e delle promesse è sempre lo stesso. Ma, soprattutto, è identico l’approccio: datemi la leva del potere partitico-fazioso e solleverò l’Italia! Così, lo scopo è accumulare voti su voti, con qualsiasi mezzo, con qualsiasi fake news, con qualsiasi moltiplicazione fasulla di pani e pesci, prigioniero del “complesso del Redentore”.
Si può uscire dalla spirale dei fallimenti e dalla crisi infinita della Repubblica? Solo se ciascuna fazione/partito riconosce all’altra la dignità e il diritto/dovere di partecipare alla costruzione delle istituzioni comuni. Perché la Patria è più grande di ogni divisione e di ogni fazione. Essa è il destino comune, ora, nell’epoca del grande disordine mondiale.
Eppure, quella del “reciproco assedio”, che Moro denunciò e si sforzò di togliere di mezzo, a prezzo della vita, continua ad essere la filosofia politica prevalente. Il ricorso alle categorie di amicus/inimicus, che hanno attraversato la storia italiana del secondo dopoguerra, continua ad ispirare “i nuovi”. Quousque tandem?

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