LibertàEguale

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di Alberto De Bernardi

 

Come moltissimi cittadini dell’Emilia Romagna sto seguendo con grande impegno e interesse la campagna elettorale per la presidenza della Regione, che si sta svolgendo secondo una modalità per molti aspetti surreale. C’è il presidente uscente Bonaccini, che sta battendo palmo a palmo il territorio per presentare ai suoi concittadini il bilancio per molti aspetti straordinario del suo lavoro che ha portato questa regione al centro del nuovo “triangolo industriale” italiano: fino a trent’anni fa era costituito dal Milano, Torino, Genova; oggi da Milano, Bologna, Treviso/Verona. Un cambiamento epocale, misurabile in pil procapite crescente o in scarsa disoccupazione, rispetto al quale la sua avversaria non ha nulla da dire, inanellando gaffes insieme a un catalogo di baggianate programmatiche, mentre il leader del suo partito, Salvini, sostituisce al rosario la coppa e il parmigiano e si fa fotografare mentre li bacia, dopo che gli si è frantumata tra le dita la strumentalizzazione violenta della vicenda di Bibbiano.

 

Il nuovo modello emiliano-romagnolo

Chiunque direbbe: non c’è partita, e invece Bonaccini, nonostante il sostegno delle forze produttive, degli amministratori, persino delle Sardine, è avanti di pochissimi punti e la Lega si conferma il primo partito in regione. Questo esito non può passare sotto silenzio, perché in questa regione il centro-sinistra si presenta non solo forte di una tradizione di buon governo, che non è collassata come in altre regioni “rosse”, come ad esempio l’Umbria, ma soprattutto in grado di esibire i risultati di un riformismo moderno, che valorizza lo sviluppo economico insieme con il welfare e l’inclusione sociale: quasi un manifesto per l’Italia, più che un programma di governo regionale. Lo sguardo è al futuro, non al passato. Eppure non basta per correre in sicurezza, forse nemmeno per vincere, a dare retta a qualche recente sondaggio, probabilmente di parte.

Domandarsi perché si verifica questa situazione diventa dunque ineludibile, non tanto per quel che riguarda la campagna elettorale ormai agli sgoccioli, ma piuttosto per cogliere i caratteri emblematici di un voto che ormai si è sovraccaricato di aspettative e di significati nazionali.

Inizialmente gli spin doctor salviniani avevano suggerito alla Borgonzoni di cavalcare la “liberazione” dal comunismo come parola d’ordine fondamentale della campagna elettorale per raccogliere in una chiave fortemente ideologizzata la volontà sicuramente presente in una parte dell’elettorato di rinnovare la classe dirigente fuori dai tradizionali confini del centro-sinistra e della lunga filiera politica Pci, Pds, Ds, Pd. Ovviamente fin che era aperta la ferita di Bibbiano questa campagna politica poteva avere un senso, anche se squallidamente strumentale – i comunisti che “mangiano” i bambini – ; poi però questo approccio ha mostrato tutti i suoi limiti, perché è difficile fare coincidere Bonaccini come simulacro di un sistema di potere incancrenito, e soprattutto perché non era sostenuto da un progetto di mutamento radicale degli indirizzi del governo locale. E’ emerso, infatti, che il centro-destra e la Lega non hanno niente da dire sulla regione e sul suo futuro governo: dire in Emilia faremo come in Veneto non è una alternativa politicamente significativa. Da quel momento la campagna della destra ha perso il suo baricentro propagandistico con il risultato che la candidata è stata oscurata ed è entrato in scena direttamente Salvini, con una campagna “nazionale” contro il governo e la sinistra, che ha perso ogni riferimento, al di la del bacio alla coppa piacentina, con la Regione e il suo futuro. Grazie a questa scelta politica la destra ha smesso di arretrare nei sondaggi e per Bonaccini la campagna elettorale è tornata in salita.

 

“L’uomo forte” alla prova

Salvini si è rimesso dunque al centro dello scontro politico chiedendo un voto su di lui e sul suo progetto sovranista scegliendo la Regione più avanzata d’Italia per uno scontro con il riformismo più maturo espresso dal Pd. Forse perderà il 26.1 ma sicuramente la Lega si confermerà un partito dotato di una capacità attrattiva notevolissima e di una forza coalizionale senza eguali.

Per capire questa indubbia novità nello spazio politico che nel giro di due anni ha modificato radicalmente gli equilibri interni del campo populista, egemonizzando l’elettorato del M5S, in rapida e tumultuosa fuga da un bluff politico da manuale di scienza politica, probabilmente è necesario seguire il percorso analitico che recentemente ha suggerito il Censis: il riemergere della richiesta dell’”uomo forte”, del leader carismatico. Nell’ultimo rapporto dell’Istituto di ricerca fondato da De Rita emerge che un italiano su due (48,2%) pensa che ci vorrebbe un “uomo forte al potere” che non debba preoccuparsi di Parlamento ed elezioni”. Un’idea che trova più consensi tra operai (62%), persone meno istruite (62%) e con redditi bassi (56,4%) e che affonda le sue radici, “nell’inefficacia della politica ed estraneità da essa”; elementi che “aprono la strada a disponibilità che si pensavano riposte per sempre nella soffitta della storia, come l’attesa messianica dell’uomo forte che tutto risolve”.

E questa dunque la partita che si sta giocando in EmiliaRomagna: adesione al progetto dei “pieni poteri” richiesti da Salvini nell’estate del 2019 per uscire dall’Europa e tornare a una Italia “sovrana”, oppure riconferma della fiducia nel riformismo democratico e europeista che punta a rafforzare una economia sociale di mercato? Attualmente la prima soluzione appare indubbiamente più forte, mentre la seconda, salvo che in qualche città e in quel che resta delle “regioni rosse” arranca vistosamente. Ecco perché la partita emilianoromagnola è strategica.

 

Un secolo fa

Ma per rispondere a questo interrogativo bisogna analizzare con più cura questo sentimento collettivo tornando proprio in quelle “soffitte” della storia dove il mito del leader carismatico sembrava fosse stato definitivamente riposto. E nel caso italiano la soffitta più ricca di suggestioni e di riferimenti è quella dove sono riposte le origini fascismo, che generò tra il 1919 e il 1924 il prototipo mondiale dell’”uomo forte” novecentesco: Mussolini, il duce, ben più solido di Lenin, e a cui si ispirarono tutti i dittatori di estrema destra in Europa tra le due guerre, Hitler compreso, e quello populisti in America latina ben oltre la fine della seconda guerra mondiale.

Perché la fine dello stato liberale nei primi anni Venti del secolo scorso può costituire una “soffitta” piena di cose utili per l’analista politico di oggi? Non certo per l’esito totalitario che la seduzione autoritaria delle classi dirigenti e dei ceti medi italiani assunse negli anni trenta, che non ha nessun riscontro oggi, quanto piuttosto per le forme che assunse la rinuncia alla democrazia e allo stato di diritto da parte della maggioranza degli italiani negli anni cruciali del primo dopoguerra. Questa rinuncia infatti apri le porte a un regime illiberale, “antiparlamentare” potremmo dire guardando il sistema politico italiano tra il ’22 e il ’26, fondato nella sostanza sul potere “extracostituzionale” di Mussolini, “uomo forte” perché sì dotato del consenso regio e del voto di fiducia della Camera, ma soprattutto perché legittimato dalla mobilitazione plebiscitaria delle milizie armate e del suo partito il Pnf, diventato in quel breve giro di anni la più grande e radicata forza politica di massa della storia d’Italia.

“L’uomo forte” – che non ha nulla a che vedere con il problema della leadership nelle democrazie odierne – apparve dunque sulla scena nel primo dopoguerra per la combinazione di questi elementi fondamentali:

  • una crisi di sistema determinata da un evento cataclismatico esterno che le classi dirigenti non sanno affrontare e risolvere;
  • la mobilitazione di gruppi sociali dominati da una crescente frustrazione sociale che si sviluppa quando aumenta lo scarto tra le loro aspettative e la realtà nella quale vivono: scarto spesso più percepito che reale, ma che genera rapidamente la produzione di “un nemico” che la incarna;
  • imprenditori politici che attraverso l’uso sofisticato della propaganda, ma anche dell’organizzazione e della forza trasformano questa frustrazione, questa stato psicologico di deprivazione in azione politica, in protesta radicalizzata che assume inevitabilmente le forme del rifiuto antipolitico e populista “dello stato delle cose presente” e delle forze politiche che lo incarnano, ritenute incapaci di combattere il nemico o peggio colluse con esso.
  • La disponibilità di una parte delle élites a favorire il compromesso con questi movimenti, per “viltà morale” avrebbe detto Gobetti, ma soprattutto per tutelare tradizionali equilibri di potere e opachi circuiti di interessi economici.
  • Una crescente debolezza degli oppositori di fronte all’affermazione dell’uomo forte come risolutore della crisi e dello stato di emergenza che ne consegue.

 

Ieri e oggi: la manipolazione propagandistica e la durezza della crisi

Questi elementi sono presenti anche oggi? La risposta non è né semplice né scontata, ma sicuramente una risposta interamente negativa è poco fondata. Indubbiamente le preoccupazioni sul peso distorcente della propaganda nella creazione di miti collettivi che inquinavano già allora la dialettica democratica, oggi risultano enfatizzate dalla moltiplicazione dei mezzi di comunicazione di massa: allora c’erano solo i giornali, oggi, insieme alla Radio e alla Tv operano i social media . Basta guardare all’Italia per cogliere il peso delle comunicazioni di massa e dei social nel successo della narrazione sovranista e populista di Salvini: pericolo migratorio che in realtà non esiste, aumento della criminalità che invece diminuisce, attacco all’euro come fonte dei mali economici del paese, mentre è vero il contrario, ritorno alla nazione come via di salvezza dalla globalizzazione, quando la nazione non è più in grado di garantirla. Ma la mitologia leghista non parla affatto alla “pancia” del paese: coglie piuttosto la frustrazione delle classi medie colpite dalla crisi che vedono ridursi il loro status sociale ed economico e offre loro il “nemico” contro il quale indirizzarla: il migrante, l’emarginato, l’Ue, il globale, i comunisti, l’antifascismo.

La crisi può essere paragonata alla Grande Guerra per i suoi effetti sull’organizzazione sociale. Le crisi sono “reagenti”, come le ha chiamate Peter Gourevitch, che “cambiano le nazioni” perché, come le guerre, ne trasformano oltre che la struttura economica anche l’organizzazione sociale e politica, modificando le forme e le sfere dell’agire collettivo. Le “nazioni” vengono proiettate in una terra incognita in cui tutte le strumentazioni istituzionali e politiche con cui le forze politiche hanno governato per decenni la società, si dimostrano inefficaci. E’ in questo spazio che è maturata agli inizi del nuovo secolo la crisi della democrazia liberale e il patto “progressista” che ha sorretto lo sviluppo dei paesi europei per oltre mezzo secolo, aprendo spazi inusitati a soluzioni populiste e reazionarie basate sull’esaltazione dell’identità di grandi e piccole patrie, sulla propaganda della “chiusura” come antidoto ai rischi della società aperta, con i suoi corollari razzisti e antisemiti, sul primato dell’omologazione piuttosto che sul riconoscimento del valore della diversità.

 

Salvini e la nuova destra

E’ sulla trasformazione di questi sentimenti collettivi in progetto politico che Salvini più avanzare il messaggio dell’uomo forte, cioè colui che chiede “pieni poteri” per risolvere la crisi, surclassando il M5S, anch’esso prodotto dagli stessi sentimenti che, però, non era attrezzato per reggere una sfida del genere e che dietro la “livrea” dell’onestà e dell’ “uno vale uno” non poteva esibire nient’altro: non aveva un progetto né per unificare la destra, né per catalizzare la sinistra. Salvini ha inoltre dalla sua un’onda internazionale favorevole, una partito unificato e diretto con piglio autocratico, una macchina propagandistica, che non rifiuta il messaggio violento per scaldare la piazza mediatica, ed l’eco pubblica del vecchio populismo padanista del suo maestro Bossi fatto di rivolta fiscale e di egoismi territoriali.

La durezza della crisi e le incertezze democratiche per risolverla, hanno consentito a Salvini di tentare per ora con successo una doppia operazione: egemonizzare lo spazio populista, creato dal M5S, con il progetto del sovranismo reazionario e al contempo unificare la destra spostandola sempre più sul versante estremistico, contrapponendo anche la sua “giovinezza” da mettere rispetto al vecchio e bollito Berlusconi, politicamente mai resuscitato dalla morte politica del 2011.  Anche Mussolini lo aveva fatto negli anni Venti, unificando nel suo progetto ultranazionalista e corporativo nazionalisti, clericalreazionari, liberali conservatori, futuristi e nazionalsindacalisti, perché possedeva tutti gli strumenti politici per imporsi, che gli altri non avevano. Come Trump negli Stati Uniti, Erdogan in Turchia o Orban in Ungheria, Salvini ha unificato tutta la destra sul suo messaggio avendo più forza manipolatoria dell’opinione pubblica.

 

La seduzione sovranista delle élites

Ma il progetto reazionario di Salvini non avrebbe potuto avere il successo che fino ad ora lo ha sostenuto se non potesse contare sulla “seduzione sovranista” di fette consistenti di establishment economico, culturale, istituzionale, desiderose di stringere con lui proprio un patto politico: la disponibilità a rinunciare alla democrazia liberale, per realizzare un regime illiberale di stampo populista e sovranista, nel quale fare sopravvivere vecchie forme di valorizzazione del capitale e opachi rapporti con lo stato che fino ad ora hanno garantito consistenti ricchezze personali e di gruppo: una sorta di neoliberismo straccione protetto da una scalcagnata sovranità nazionale in grado, attraverso l’evasione fiscale, la deregolamentazione del mercato del lavoro e la riduzione del welfare di garantire al vecchio capitalismo familista italiano di sopravvivere senza i costi dell’innovazione tecnologica, della concorrenza e dell’integrazione nel mercato mondiale. La forza attrattiva di questo messaggio riguarda la sua capacità di “parlare” soprattutto alla miriade di piccoli imprenditori delle aziende a conduzione familiare, che costituiscono lo scheletro del sistema industriale italiano, che si collocano negli spazi marginali e arretrati delle catene di valore che caratterizzano il capitalismo globale, che non sono inclini all’innovazione tecnologica e offrono lavoro qualitativamente modesto, mal pagato e spesso precario: un mondo industriale periferico che ritiene di non aver vie d’uscita che non siano le scorciatoie sovraniste.

Se alle classi medie impoverite Salvini promette di cancellare la concorrenza dei migranti nella distribuzione delle risorse del welfare, senza dire che la forza- lavoro straniera contribuisce al suo finanziamento, alle élites industriali e finanziarie promette una sopravvivenza senza cambiamento, un capitalismo con scarsissimo sviluppo delle forze produttive ma con una crescita dei profitti fondata sui bassi salari, sull’incremento delle diseguaglianze e dell’esclusione sociale: un capitalismo che ha avuto sempre un grande appeal presso settori non piccoli delle classi dirigenti produttive, fino dagli inizi del ‘900 e che ha guardato al fascismo come il sistema più adatto alla sua riproduzione.

 

La democrazia a un bivio

Le istituzioni democratiche hanno finora retto e non hanno consentito a Salvini di risolvere a suo favore “lo stato di emergenza” determinato dalla crisi, perché sono molto più solide dello stato liberale di un secolo fa, perché la seduzione sovranista ha toccato poco i corpi statali preposti all’uso della forza, come invece accadde con il fascismo, che poté contrare sull’appoggio delle alte sfere militari, e non ha avuto sostegni consistenti nella chiesa cattolica presidiata da papa Bergoglio.

Ma il sistema politico è stato scosso profondamente. La vittoria populista nelle elezioni del 2018, presto trasformatasi nel successo sovranista, è stata l’esito di quella ancor più gravida di conseguenze del referendum del 2016. In quell’occasione si è misurata la forza del populismo sovranista che ha egemonizzato tutta la destra e parti consistenti dell’opinione pubblica di sinistra contro un progetto di stabilizzazione democratica del sistema istituzionale che puntava a risolvere la situazione di emergenza in chiave riformista. Quella sconfitta ha aperto una fase politica nuova caratterizzata da una forte instabilità e dall’oggettiva condizione minoritaria del riformismo, che ha perso persino all’interno del Partito democratico, ora proiettato a sopravvivere solo contendendo alla destra lo spazio dell’assistenzialismo e dello statalismo, senza la forza di una esplicita vocazione maggioritaria. Il ritorno al proporzionale segnala la fine di ogni tentativo di restituire ai cittadini lo scettro della governabilità, ora affidata ai negoziati postelettorali tra i partiti, molto più deboli e delegittimati di quello della I Repubblica e privi di quei “vincoli esterni” che hanno dato per quasi mezzo secolo stabilità al sistema politico.

Siamo dunque in mezzo al un guado: la soluzione riformista è stata respinta, ma quella sovranista non ha vinto, ma non è stata effettivamente sconfitta, come testimonia la pulsione verso l’”uomo forte” e la scorciatoia illiberale. Le elezioni in ER sono sovraccaricate dal peso di questo contesto, dettando a seconda del vincitore, la via d’uscita: dire che sia un’elezione locale è una puerile bugia.

 

 

 

 

 

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