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Mario Segni: «A cena con Berlusconi cercai di convincerlo a non entrare in politica» L’ex democristiano: «L’idea della battaglia per il maggioritario me la fece venire Pannella, il più entusiasta fu Occhetto. Sono stato ingenuo: mi spettavo l’appoggio della Dc. Poi il referendum del ’99 fu l’inizio della restaurazione»

intervista di Walter Veltroni (pubblicata il 27 ottobre 2019 su Il Corriere della Sera)

 

Mario Segni, non si può parlare di fine della prima Repubblica senza la tua testimonianza. Tu nasci politicamente maggioritario? Un democristiano non proporzionalista alla fine degli anni Ottanta è un’eccezione…

«Essere per il maggioritario nella Dc non era facile. Ricordo che ci fu ad un certo punto, febbraio 1979, l’incarico a La Malfa. Lui, per motivi sostanzialmente tattici, ben diversi dai miei, si era convinto che bisognava arrivare in Italia al maggioritario. La ragione è che voleva fregare Craxi, nella sostanza. Proponeva: facciamo il quadripartito, senza Craxi, e la legge maggioritaria. Facemmo una lunga chiacchierata con il proposito poi di farne un pezzo giornalistico, con Augusto Barbera, Ronchey. Passammo mezza giornata, registrando e scrivendo. Se non sbaglio doveva essere Ronchey a trarne un pezzo giornalistico. Ma non se ne fece nulla. Era poco dopo la morte di Moro. Il ragionamento di La Malfa era questo: era possibile una situazione diversa, quella della legittimazione del Pci attraverso un’alleanza di governo, finché c’era Moro, come garante. Non c’è più Moro, il Pci torna indietro, si arrocca e quindi noi restiamo sotto il giogo di Craxi. Liberiamoci di questo e governiamo l’Italia. Aveva una sua lucidità».

Facciamo un passo indietro, nel ’77 tu firmi, insieme con una serie di deputati della destra democristiana, un documento contro la solidarietà nazionale. Che cosa non ti convinceva di quella formula?

«Era, nelle nostre intenzioni, la fase iniziale di un movimento di idee nuove dentro la Democrazia cristiana. Durò poco, fu limitato nei suoi effetti, però ebbe una sua vitalità. Era il tentativo di infondere nella Dc una cultura liberale, che diciamo la verità, nella Dc era molto limitata dal massimalismo della sinistra interna da una parte e dall’altra parte dallo statalismo doroteo. Era una merce rarissima, naturalmente incoraggiata dalla candidatura di Umberto Agnelli che aveva suscitato interesse in certi ambienti, anche insospettabili. Per esempio ricordo l’entusiasmo per questo tipo di iniziativa di Andreatta, che pure era della sinistra democristiana e vicino a Moro».

Anche Scalfaro firmò quel documento…

«Scalfaro però se ben ricordo era interessato più a una rottura politica della solidarietà nazionale piuttosto che all’assunzione, nella Dc, di una cultura liberale. Noi anche eravamo contrari a quell’esperimento, in primo luogo perché contrastavamo il consociativismo. Nessuno di noi pensava, in quel momento, a far nascere una campagna maggioritaria referendaria, ma l’opposizione alla solidarietà nazionale era coerente, nella nostra visione liberale: il rapporto Dc-Pci doveva sfociare nell’alternativa fra i due grandi blocchi, non nell’abbraccio. Fu un’azione che ebbe un notevole successo, nei gruppi parlamentari. Più per anticomunismo che per vera cultura liberale, per essere sinceri. Molti avvertivano il clima mutato di quegli anni. Quell’iniziativa trovò, non sembri paradossale, una interlocuzione molto attenta con Moro, il quale sentiva come un dovere tenere la Dc più unita possibile. E capiva che noi interpretavamo una spinta esterna forte, c’era Montanelli, ad esempio, che ci sosteneva. Avevamo con lui un’interlocuzione frequente, specie sugli elementi di programma».

Ti ricordi il suo ultimo discorso al Gruppo della Dc per convincerli a sostenere il governo Andreotti?

«Benissimo».

Che impressione ti fece?

«Molto netto e molto chiaro. Fu assolutamente esplicito sulla direzione di marcia. Lui stesso prima era stato più reticente, più cauto, più prudente. Grande discorso. Fu l’atto politico decisivo della sua scelta strategica, coraggiosa e sofferta».

 

Come hai vissuto i giorni del rapimento?

«Il ricordo che ho è la situazione caotica in cui erano venuti a trovarsi gli organi di polizia. Si vedeva la casualità, la disorganizzazione. Io ho avuto sempre l’impressione che Cossiga avesse dato un grande contributo a questo caos della polizia, anche perché lui aveva la mania di fare il poliziotto, dava le direttive, si intrometteva, aveva creato questi strani comitati. Io credo che facesse una grandissima confusione. Il merito di Rognoni, uomo più semplice, forse meno brillante di Cossiga ma più concreto e più efficace, fu quello di ridare ad ognuno il suo ruolo, quindi i poliziotti facessero i poliziotti e i carabinieri facessero i carabinieri. Tanto è vero che la sua prima mossa, azzeccata, fu quella di nominare dalla Chiesa».

 

Dopo la solidarietà nazionale c’è il buco nero del pentapartito che fu una stagnazione di cui il debito pubblico italiano è testimonianza. Quando ti nasce l’idea del referendum? Come?

«L’idea della battaglia per il maggioritario me la fece nascere Pannella, che creò la Lega per il collegio uninominale. Si costituì a livello parlamentare e c’erano dentro tutti i radicali, era patrocinata dai socialisti. Formica era uno dei più attivi, tanto è vero che si raccoglievano fondi e i soldi venivano versati all’Avanti. Cose che raccontate oggi… Questa Lega fece delle cose molto belle sul piano culturale, fu molto attiva. Questa è la parte precedente. Dopo di che però il referendum fu inventato non da me, ma dal Congresso della Fuci presieduto da Guzzetta, con Ceccanti e Tonini. Guzzetta trovò anche il meccanismo giuridico e io lo seppi dai giornali. La cosa mi interessò, andai a trovare i fucini assieme a Bartolo Ciccardini e immediatamente si aggiunse Pietro Scoppola, che fu uno degli animatori dell’inizio della battaglia referendaria e una delle anime decisive del movimento. Stiamo parlando, non a caso, dell’89. Nel ’90 partì la prima raccolta di firme».

 

Quanto contò la caduta del muro in questa scelta?

«Enormemente. La caduta del muro fu quella che ci fece capire chiaramente che l’alternanza era finalmente possibile. Che era caduto veramente il grande ostacolo, era finito un sistema. Che aveva tenuto bloccata la democrazia italiana».

 

Chi sono i primi compagni di strada che trovi in questa vicenda?

«Il passaggio decisivo è il colloquio con Occhetto, che era già stato avvicinato da Pannella. Quando andai da Occhetto lo trovai entusiasta. La causa referendaria deve molto ad Occhetto. Quelli che sono stati poi addebitati come suoi difetti in questo caso furono essenziali per l’esito di quella battaglia. Era un uomo che si buttava, impulsivo, coraggioso, forse anche eccessivamente. Senza questa determinazione probabilmente non sarebbe mai partita la sfida. Occhetto la sposò con entusiasmo. Dopodiché raccogliemmo in quel periodo le adesioni più strane, ci furono convergenze da tutte le direzioni. Per esempio un gruppo attivissimo fu l’Associazione Nazionale Donne Elettrici, giovani fucine, anziane nobili, un mondo stranissimo, eterogeneo sul piano sociale e politico. C’era persino la cognata di Andreotti… Un grande contributo venne da Paolo Barile che poi ci difese e collaborò molto alla costruzione giuridica del quesito. Ci fu un evento che ci fece decidere per la strada referendaria. Verso la fine del 1989, arrivò in parlamento la riforma degli Enti locali presentata da Gava, il ministro dell’Interno, governo Andreotti. Noi presentammo un emendamento per l’elezione diretta del Sindaco, raccogliendo moltissimi voti. Gran parte del gruppo della Dc era favorevole, i missini anche, e pure nel Pci raccogliemmo molto consenso. L’emendamento poteva, a scrutinio segreto, essere approvato. Noi eravamo addirittura disposti ad un accomodamento gradualista che facesse iniziare la riforma dai piccoli comuni. Andreotti non rispose neanche, Craxi fu durissimo. Andreotti pose la fiducia e così noi ci accorgemmo che la strada legislativa era chiusa, per sempre. Restava solo il referendum».

 

Nella Dc ti fecero una guerra spietata. Mi racconti i passaggi più duri?

«Per la Dc fu una grande occasione mancata. Eravamo agli inizi del pentapartito e fu decisiva la durezza di Craxi. Io non me l’aspettavo, perché Craxi era stato l’inventore della grande riforma. Invece fece un ragionamento puramente tattico. Disse che non ci sarebbe stato più un sindaco socialista, che gli eletti direttamente sarebbero stati tutti o democristiani o comunisti. Per la Dc contò, per determinare l’opposizione al referendum, il convinto appoggio di Occhetto. Sarò stato ingenuo, ma ero convinto che la Dc sarebbe stata su posizioni diverse e il paradosso fu che una riforma di tipo gollista passò, in Italia, con l’appoggio della sinistra e con la feroce contrarietà di tutto il mondo politico cosiddetto moderato. Poi noi, per fortuna, avevamo l’appoggio di Montanelli, della Confindustria, dell’associazionismo sociale. Ma Forlani, Andreotti, Craxi che in quel momento erano i detentori del potere, erano ferocemente contrari e fecero di tutto per batterci…».

 

Chi, della Dc, cercò di intimorirti?

«Ricordo i colloqui con Forlani. Forlani era un uomo gentile, non era un duro, ma sul tema fu fermissimo. Forlani avvertiva pienamente l’opposizione durissima di Ruini e di tutto il mondo cattolico organizzato. Poi ci furono con noi la Fuci e pezzi importanti dell’associazionismo. Ma il giornale più ostile di tutti fu l’Avvenire. Fu un elemento importante, che aumentò enormemente le nostre difficoltà. Ma, più in generale lo considero un grave elemento di crisi strutturale della Democrazia cristiana e di tutto quel mondo. Fu uno dei grandi sbagli strategici di quella fase».

 

In fondo la Dc non aveva capito la caduta del muro? Pensava che tutto potesse continuare come prima?

«Nella sostanza, sì».

 

Poi arriva Tangentopoli…

«La vittoria del ’91 non ha niente a che fare con Tangentopoli. Lì la Democrazia cristiana effettivamente entra in crisi, perché molta parte del voto dei Sì nel ’91 era democristiana. Una buona parte dell’elettorato democristiano aveva disatteso le indicazioni del partito».

 

Fu un po’ come per il divorzio?

«Sì, esattamente. Uno scossone che fece tremare tutto il sistema politico».

 

In quel momento è leggenda che tu avessi il Paese in mano?

«Se tu parli del ’91, allora eravamo all’inizio del cammino riformistico. I due anni successivi furono impiegati a preparare il referendum. Vittoria molto dura, anche se ormai la strada era in discesa. Sono passati trent’anni e posso dire che la famosa battuta di aver perso il biglietto vincente della lotteria non mi colpì mai, perché il mio vero biglietto erano stati i referendum. Anche in termini personali, era il successo della riforma. Se stavo facendo una cosa importante era quella di promuovere il referendum e la riforma del Paese, non quella di creare, come pure sognavo, un’area liberal democratica. De Gaulle va ricordato perché ha cambiato la Costituzione francese assai più che per aver creato poi il Partito gollista. Oggi, a trent’anni di distanza, siamo alle prese con l’amarezza di vedere in gran parte disfatto quello che avevamo fatto…».

 

È vero che Berlusconi ad un certo punto ti propose di fare il candidato alla Presidenza del Consiglio, prima della sua discesa in campo?

«Non è vero. La capacità di Berlusconi di dire bugie e soprattutto di farle credere agli italiani è immensa. È anche facilmente comprensibile, conoscendo Berlusconi come lo abbiamo conosciuto dopo».

 

Lui non ha mai pensato di portarti nel suo schieramento?

«Mai, assolutamente. Lui ha sempre pensato, legittimamente dal suo punto di vista, a creare e a capeggiare. Onestamente non me lo disse mai».

 

È lui che ha messo in giro la voce?

«Berlusconi organizzò, subito dopo il referendum del ’93, un pranzo a casa Letta in cui lui propose un’azione comune. Io, che ero contrario all’idea che scendesse in campo perché avevo previsto facilmente il conflitto di interessi e tutto quello che avrebbe significato, cercai di sconsigliarlo. Questo fu il tema. Non si parlò mai di leadership di uno schieramento, che lui voleva per se stesso».

 

Un’occasione probabilmente persa da tutti fu proprio nel ’94 il non aver fatto un’alleanza tra lo schieramento tuo e di Martinazzoli e la sinistra. La somma dei voti dei due schieramenti era superiore a quello del centrodestra. Che cosa sarebbe successo nella storia italiana?

«Sarebbe stato tutto diverso, non c’è il minimo dubbio. Vista a posteriori la cosa può sembrare facile, in realtà era difficilissima. Era crollato il muro di Berlino ma c’erano decenni di un passato molto diverso, di divisioni profonde, ed è vero anche che c’erano incrostazioni massimalistiche di vecchio stampo dentro il Partito comunista, ed erano molto forti. Fu dopo, con Prodi, che iniziò in quel campo una situazione nuova. Quindi nonostante Occhetto e la sua disponibilità al nuovo, credo che allora sarebbe stata difficilissima un’alleanza e onestamente non so poi quale sarebbe stato il risultato elettorale. Avemmo un risultato elettorale molto inferiore al previsto, ma la nostra convinzione era che ci fosse un pezzo del Paese disposto a votare per un partito di centro ma non un’alleanza a sinistra. Forse i voti non si sarebbero sommati».

 

Nel ’96 perché non fosti con l’Ulivo?

«Fu un fatto personale. Sentii che ormai dovevo dedicarmi alle questioni istituzionali, non alla politica in senso stretto. E da una posizione più neutra noi preparammo un evento di cui oggi possiamo parlare solamente mordendoci le mani: il referendum del ’99 che avrebbe sancito il passaggio a un sistema maggioritario integrale. Fu veramente una catastrofe per il Paese. Nel ’93 avevamo prodotto una svolta profonda. Il ’99 fu la mancata svolta, l’inizio della restaurazione».

 

Forse va ricordato che mancò il quorum per 150.000 voti, raggiunse il 49,8 dei partecipanti, ma il Sì vinse con il 91,50 per cento.

«Dei due milioni di elettori all’estero solo lo 0,85 ricevette la scheda elettorale. È inutile ricordare. Se affrontiamo il discorso su cosa ha reso possibile la controffensiva di questi anni, non c’è dubbio che l’evento principale è stato quello. Tanto è vero che Franco Marini, nostro tenace e coerente avversario, insieme a parte della sinistra e a Forza Italia, il giorno dopo il referendum disse che si doveva e poteva iniziare la battaglia per la proporzionale. Capii immediatamente la portata della sconfitta che avevamo subito. Il Paese aveva rimesso indietro l’orologio».

 

Le varie strade che tu hai battuto: Alleanza democratica, poi il Patto Segni…

«Fu una ricerca onesta, ma infelice. Fini ha rappresentato, in certi momenti, la speranza di una destra diversa. Sappiamo da dove veniva, e non mi piaceva, però io ci credevo. Ho conservato un rapporto personale ottimo con lui. Mi dispiace tutto quello che è capitato. Quell’operazione fu un tentativo affrettato e quindi profondamente sbagliato di cominciare ad aggregare quelli che volevano creare in Italia una destra riformista».

 

E Alleanza democratica invece?

«Alleanza democratica era basata su una speranza che però era oggettivamente una illusione. La velocità del cambiamento in quegli anni ’92, ’93, ’94 ci fece credere che i mutamenti che richiedono anni o decenni potessero avvenire improvvisamente. Alleanza democratica presupponeva la fine del Partito comunista o di quello che ne era seguito. Anche questa si rivelò un’ipotesi azzardata. La storia era andata veloce, ma i processi politici erano più lenti».

 

Craxi, che al referendum disse «andiamo al mare», con te che rapporto ebbe?

«Quando lanciò la grande riforma eravamo tutti con lui, ma Craxi era un uomo per il quale erano difficili le mezze misure, per come l’ho conosciuto. E quindi, poi, fu una guerra. Lui fu protagonista di un episodio non simpatico: pretese le mie dimissioni dalla presidenza del comitato di controllo dei servizi. Un tipo di guerra che onestamente io non ho mai praticato e che da lui non mi sarei mai aspettato, nella mia ingenua concezione di una politica cavalleresca. Io credo che sia stato il grande errore politico della sua carriera, il referendum del 9 giugno. Fu l’inizio del suo declino politico perché lui passò dal ruolo di innovatore che gli veniva riconosciuto anche dagli avversari a quello del conservatore dello stato presente e della sua evidente malattia istituzionale e politica. Occhetto fece salire il Pds non tanto sul carro dei vincitori, quanto su quello degli innovatori, salvando così le prospettive generali della sinistra. Occhetto merita questo riconoscimento. Lui ha salvato la sinistra italiana, in quel momento. Se gli eredi del Pci si fossero schierati dall’altra parte e fossero stati battuti, tutta la prospettiva della sinistra italiana sarebbe stata compromessa».

 

Come sarà l’Italia del proporzionale?

«Tutti si illudono che tornino De Gasperi e Togliatti. Va peraltro ricordato che De Gasperi cercò di superare il proporzionale con quella legge che fu assurdamente definita truffa. La situazione di allora era del tutto diversa. L’Italia aveva un partito quasi al quaranta per cento, un’opposizione al trenta, una divisione dei due schieramenti dettata da eventi mondiali. Partiti fortissimi, solidi, che non sono mai più esistiti e mai più esisteranno. Nell’Italia proporzionale ci saranno molti Ghini di Tacco, molti. Un gigantesco crogiuolo di trasformismi. Noi siamo stati accusati o elogiati a seconda dei punti di vista, per aver determinato la fine dei partiti, dei vecchi partiti, come la Democrazia cristiana. Ma questa è un’accusa o un merito ingiustificato. Noi abbiamo immaginato, sulla crisi dei partiti, la democrazia dell’alternanza, con governi decisi dai cittadini. Era l’idea di una uscita in positivo dalla crisi. Ma la crisi dei partiti non l’abbiamo fatta noi. Era già in atto. Solo gli equilibri internazionali la mantenevano in piedi, da troppi anni».

26 ottobre 2019 (modifica il 27 ottobre 2019 | 10:29)

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