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di Alberto De Bernardi

 

Impazzano sui social e sui giornali (nella televisione no, perché è sovranista) commenti e prese di posizioni sulle le affermazioni di Tajani a proposito del fascismo, che prima delle leggi razziali e dell’alleanza con Hitler avrebbe fatto cose buone soprattutto a livello delle infrastrutture e delle bonifiche agricole.

Queste affermazioni stupefacenti in bocca al presidente del parlamento europeo, che costituisce la sintesi anche sul piano simbolico dell’antifascismo europeo, e inoltre espresse in una trasmissione radiofonica vocata al “cazzeggio” inconcludente e qualunquista, non costituiscono, però, una novità: circolano in Italia dal 1945 e condensano il tentativo di “defascistizzare” il fascismo messo in atto da quell’ampia “zona grigia” della società italiana che tra il ’43 e il ’45 era stata alla finestra di fronte alla “guerra civile” tra fascismo e antifascismo.

Non si trattava di attendismo o solo di opportunismo soprattutto negli strati intermedi della società, che erano stati quelli che avevano maggiormente goduto dei vantaggi del regime: si trattava invece di una profonda estraneità alla democrazia e di un sostanziale ostilità nei confronti dell’antifascismo che ne costituiva l’essenza ideale.

Si annida qui uno dei drammi che hanno minato la Repubblica mai pienamente superato: una parte non piccola di italiani, se ripudiò il fascismo, che rimase il riferimento simbolico di sparute minoranze neofasciste, non si riconobbe nemmeno nell’antifascismo e nella sua tavola dei valori: operò una semplice secessione dai miti e dalle retoriche del fascismo, travolti dalla sconfitta militare, ma da cui non derivò per molti una adesione convinta alla soluzione democratica e repubblicana della crisi italiana proposta dai partiti antifascisti.

 

L’antiantifascismo

Questo coacervo di forze sociali, politiche e intellettuali se non era più fascista, ma che era anche fieramente avverso alla democrazia di massa e ai suoi partiti, ritenuti un pericolo, possiamo definirlo “antiantifascista”, la cui narrazione del regime e della Resistenza avrebbe accompagnato la storia della repubblica, alimentando la diffusione di una sostanziale benevolenza nei confronti del regime sulla base dell’assunto che Mussolini non era stato un dittatore sanguinario come Hilter e Stalin, e il fascismo era un regime bonario, che aveva fatto “tante cose buone”.

L’antiantifascismo divenne la cultura identitaria e l’autorappresentazione di un parte di quella «zona grigia» che tra il ’43 e il ‘45 non solo, e non tanto, aggirò la scelta netta tra resistenza e fascismo saloino, ma soprattutto rimase profondamente scettica di fronte allo sbocco democratico della guerra e del collasso della dittatura. Questa incertezza sulla democrazia costituì il principale ostacolo all’affermazione degli ideali antifascisti come fondamento del patto costituzionale e al riconoscimento della Resistenza come mito fondatore del nuovo ethos democratico-repubblicano.

Uno degli intellettuali più influenti del regime, lo storico Gioacchino Volpe, a poche settimane dalla fine della guerra e del crollo definitivo del fascismo, in una lettera a suo figlio fornisce già allora le coordinate dell’ideologia dell’”antiantifascismo”: il rischio che la libertà riconquistata si traducesse in “licenza e onnipotenza dei partiti”, aggravando rispetto al ventennio totalitario i “mali” del paese; il richiamo alla necessità di un governo “forte”, libero dalle influenze dei partiti, vale a in grado di superare la politica dell’antifascismo e parlare all’“uomo qualunque”, con un “programma di strade, di ferrovie, di trasporti, di grano, di ordine pubblico, di giustizia, che incoraggi i produttori, tenga in vita il cittadino-contribuente, diffonda in tutti la certezza che non verranno spogliati della loro terra o della loro casa o abbandonati alla mercè del contadino o dell’inquilino, liberi decine di miglia di italiani dall’incubo della così detta epurazione, smetta la ridicola pretesa di fare il processo…a tutta una fase storica della vita italiana, tutto un popolo che in un modo o in un altro la ha alimentata di sé”.

Ovviamente questo “governo del fare” era in realtà l’incunabolo dell’antipolitica, dietro al quale si nascondevano gli interessi delle classi medie fascistizzate, pregiudizialmente ostili ad ogni esame di coscienza individuale e collettivo.

 

I fini del “fare”

Non si sa se per superficialità, ignoranza o condivisione, Tajani non ha fatto una battuta di buon senso; ha riprodotto invece uno dei punti di forza di quella narrazione, che sta assumendo nuovo vigore nello spazio pubblico oggi più che nel passato, perché non esiste più una convergenza delle forze politiche sulla necessità di presidiare il fondamento antifascista della Repubblica. Un presidio, bisogna riconoscerlo, che è stato ondivago spesso solo retorico, soprattutto per la sua incapacità di coinvolgere pienamente la scuola e la formazione delle giovani generazioni che per decenni sono state lasciate prive di effettive conoscenze sul regime, in una alternanza di rimozione e damnatio memoriae che ha contribuito a costruire un immaginario confuso e sbiadito sul totalitarismo italiano.

Tajani ha evocato tutto questo, forse per ammiccare a quell’Italia antiantifascista che probabilmente ha votato in massa la nuova Lega di Salvini, ma più probabilmente ha fatto emergere la sua identità antiantifascista, che è una componente fondamentale della cultura di destra che il berlusconismo aveva rappresentato fin dalle due origini, e prima di questo movimento era riemersa nelle varie “maggioranze silenziose” che dagli anni settanta si sono affacciate sulla scena politica: e semplicemente il mondo da cui proviene.

E il primo effetto di questa opacità e confusione è che nessuno si perita di spiegare le ragioni di quel “fare”, di quella ansia edificatrice che ha pervaso il fascismo spingendolo a lasciare in ogni città italiana il segno del suo passaggio nella storia nazionale. Quel “fare”, fosse esso costruire piazze e “città nuove” o bonificare le paludi non nasceva dalla necessità di dotare il paese di infrastrutture moderne o di liberare le coste italiane dalla malaria da cui erano infestate da secoli.

L’obbiettivo era infatti quello di usare anche i muri e la terra per realizzare l’opera fondamentale del regime che consisteva nella fascistizzazione del paese e nella trasformazione degli italiani in fascisti: “fare” non per il “bene comune” ma per estendere il controllo sociale del regime in ogni angolo del paese, per plasmare la coscienza collettiva attorno ai miti del fascismo e alla sua religione civile. Era dunque un fare “politico”, inestricabilmente legato a quelle azioni che vengono da tutti criticate – perseguitare i nemici del regime, colpire le razze ritenute inferiori, sottoporre al controllo poliziesco la popolazione -, perché rispondeva alla stessa finalità di trasformare l’Italia in una “comunità di destino”, stretta attorno al suo Duce e integrata pienamente nello stato totale. Vie, palazzi, piazze, stazioni sono dunque “propaganda”, secondo modalità comunicative che ritroviamo della Germania nazista, nell’ Urss di Stalin, nella Cina di Mao. Anche le bonifiche sono propaganda e violenza politica al tempo stesso: sono infatti iscritte all’interno delle politiche nataliste, e di colonizzazione interna coatta dei contadini poveri per aumentare la produzione agricola nel quadro della politica autarchica del regime; rispondono cioè all’intento di fare delle campagne il laboratorio per la costruzione dell’ “uomo nuovo”, rurale e prolifico voluto dal regime e naturale “baionetta” nelle mani dello stato per le sue politiche imperiali.

 

Durare nei secoli

Ecco perché quelle opere non sono “buone”, non sono ascrivibili a presunti “meriti” di un regime si autoritario ma capace di fare imponenti realizzazioni pubbliche.

Certo, nel caso dei manufatti si tratta anche di opere spesso pregevoli perché alla loro realizzazione fu chiamata una nuova generazione di giovani architetti molto brillanto e impregnati delle idee delle correnti artistiche del loro tempo, ma esplicitamente consapevoli di essere chiamati a realizzare un’opera politica che andava oltre i singoli prodotti: erano i primi a credere nel fascismo e nella sua volontà di durare nei secoli.

Quindi nessuna mitologia dell’“arte per l’arte”, quanto piuttosto la consapevolezza che queste opere, poiché restano, fuori dal contesto ideologico che le ha generate, possono essere riusate ad altri fini, né devono essere oggetto di furia iconoclasta, esattamente come in Asia, in Africa o in America latina si usano le opere realizzate dai governi coloniali, comprese quelle strade o quelle ferrovie che costituirono, oltre alle armi, il principale strumento per rafforzare il dominio delle potenze imperialiste sui popoli colonizzati; o come in Russia non sono state abbattute le realizzazioni del comunismo.

 

Un criterio inapplicabile

Il criterio del buono e del cattivo non può essere applicato a un regime totalitario perché ogni suo atto è caratterizzato dalla volontà di coartare la coscienza degli individui, trasformando i cittadini in sudditi attraverso un’opera di politicizzazione di massa nella quale non è escluso nessun aspetto della vita civile. In questo quadro anche le cose in se positive, come costruire una piazza o mandare l’uomo sulla luna, non possono essere valutate con quel metro di giudizio e utilizzate per ridimensionare o edulcorare la condanna storica e morale sul fascismo o il comunismo.

Anche perché tante piazze venivano costruite negli stessi anni anche negli stati democratici e gli uomini vennero mandati sulla luna senza bisogno di uccidere gli avversari politici o costruire campi di concentramento. Il totalitarismo non ha due volti: ne ha uno solo ed è l’antitesi della democrazia, le cui vittime non sono solo coloro che sono stati consapevolmente perseguitati, ma tutti perché costituivano il corpo sui cui efferati regimi conducevano il loro progetto di ingegneria politica.

 

 

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