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di Giovanni Cominelli

 

lI Bilancio demografico nazionale 2019, reso noto dall’ISTAT qualche giorno fa, è scivolato immediatamente nelle retrovie della discussione pubblica. L’ISTAT: vox clamantis in deserto…

 

Le nascite al minimo storico

Siamo ad un nuovo minimo storico delle nascite dall’Unità d’Italia. In cinque anni abbiamo perso 551.000 residenti. Al 2050 saremo 57 milioni, la cui fascia più larga di età sarà quella dei settantacinquenni. E’ lo scenario di un declino fisico e demografico che sottoproduce – ed è sottoprodotto da – quello produttivo, sociale, culturale, in un fatale circolo vizioso.

E’ il declino della civilizzazione italiana.

Né chi proclama lo slogan “Prima gli Italiani” né chi lo anatemizza, né la società civile né quella politica, occupate dalla bulimia del presente, si danno tempo di pensare all’Italia. Prima gli Italiani? Sì, ma solo quelli di oggi! Non pensano agli Italiani di domani gli anziani, che al 2050, ma anche prima, saranno tutti morti; non gli adulti oggi maturi, che al 2050 saranno molto anziani, ma protetti dalle ultime pensioni dell’ultimo Welfare; non i giovani, illusi dall’ideologia dominante che il futuro venga loro incontro migliore per diritto di nascita.

Ora, l’inverno demografico non è affatto una deriva “naturale”, è una scelta sociale e personale. Comprenderne il perché è il primo passo per farne, possibilmente, un’altra.

 

Le cause storico-sociali

In questi anni sono state proposte varie spiegazioni di questo mega-trend, quasi tutte di contenuto storico-sociale, quasi tutte ricche di frammenti di verità. Chi lamenta la mancanza di politiche della famiglia, chi denuncia la cattiva organizzazione del mercato del lavoro e del lavoro in azienda, chi l’effetto terroristico del catastrofismo apocalittico relativo all’esplosione demografica mondiale o alla crisi climatica o ai rischi di una guerra nucleare e/o batteriologica, chi l’edonismo e il nichilismo delle generazioni moderne, chi la perdita di Dio.

 

Il desiderio di maternità resiste

Eppure, proprio il prof. Gian Carlo Blangiardo sottolinea come dalle ricerche ISTAT risulti un permanente desiderio di maternità da parte delle giovani donne in età. Va solo annotato che la spinta alla maternità delle donne non è più, principalmente, innescata da un contesto sociale che le piegava quasi costrittivamente nella funzione-destino di riproduttrici, bensì da una motivazione di autodeterminazione e di autorealizzazione.

Che cosa si interpone tra quel desiderio e lo scacco finale del suo compimento, i cui effetti individuali accumulati producono conseguenze sociali e storiche enormi? La risposta di rito è che non sono state realizzate da decenni delle politiche che creassero un contesto socio-culturale favorevole alla maternità, senza pregiudicare carriera, realizzazione professionale, autodeterminazione delle donne. La società italiana è tuttora decisamente maschilista nell’economia, nella società, nell’Amministrazione statale, nella politica.

Così, se una donna vuole realizzarsi in una dimensione economico-sociale e pubblica, la maternità diviene una pietra di inciampo. Se vuole accedere alla maternità, deve chiudersi in casa e in famiglia. Perciò, molte giovani donne, poste di fronte al bivio, scelgono la realizzazione di sé. Possono, e accade sempre più frequentemente, anche fare un figlio – non più di uno – quale tappa della propria realizzazione: ragazze single con un figlio. Ne basta uno per la realizzazione di sé, ma ne servirebbero due per garantire il saldo tra vivi e morti.

 

Perché non sono state implementate le politiche per la maternità

Perché non sono state implementate le politiche per la maternità? La spiegazione maschilista non basta. Dietro ce ne stanno altre due: una visione agnostico-scettica della collocazione dell’Italia in Europa e nel mondo e un’antropologia filosofica nichilista.

1- Quanto alla collocazione dell’Italia nella storia europea e mondiale, dopo il tentativo del Fascismo di creare un robusto senso della Patria nella mente degli Italiani, non è seguito, dopo,  quasi più nulla.

1a – Da parte del cattolicesimo politico è arrivato un soffio di europeismo, che non ha prodotto scarse conseguenze culturali sulla costruzione della coscienza della Patria e del suo destino in Europa e nel mondo. Acquattati all’ombra della Nato, ci siamo rinchiusi dentro i nostri confini. Gli interessi energetici ci hanno proiettato per una stagione verso il Sud del Mediterraneo. Ma la Nato e l’Europa hanno funzionato come pigra copertura e come alibi per una politica mai divenuta veramente “estera”, rimasta “interna”, anche quando si occupava del mondo “là fuori”.

2a – Quanto alla sinistra ad egemonia PCI, il suo sguardo “internazionalista” ha sottoprodotto per decenni il filosovietismo, il neutralismo, e, persino, il silenzio sulle foibe titine. Salvo, si intende, l’europeismo  di una minoranza migliorista e dei socialisti di Craxi. Ora, se non abbiamo “una missione” nel mondo, che ci importa del nostro futuro come Paese? Respingendo la torsione nazionalista e imperialista impressa dal Fascismo all’idea di Patria, l’Italia repubblicana si è abbandonata ad un agnosticismo scettico. La politica del debito pubblico, la cui ascesa è incominciata nel 1976, è l’effetto e il segnale più clamoroso di tale approccio, che Andreotti ha incarnato a lungo. La non-politica della famiglia, della maternità, dell’emancipazione/liberazione della donna ne ha costituito il corollario.

2- Quanto all’antropologia filosofica che sta dietro l’inverno demografico – non importa quanto consapevole, ma quanto praticata – essa è il prodotto della secolarizzazione rapidissima e irreversibile del cattolicesimo e del marxismo.

2a- Nel cattolicesimo, l’uomo non è semplicemente una proprietà emergente delle relazioni econonomico-sociali, è un nucleo ontologico, radicato nella Trascendenza, cioè nell’Altro. E’ lì che si fondano la libertà e la responsabilità sociali della persona. Nel messaggio cristiano la salvezza non è una vicenda individuale, se non nella misura in cui l’individuo diventa persona, rispondendo dell’altro con gli altri. E. Mounier, di cui quest’anno cade il settantesimo della morte, lo chiamava “personalismo comunitario” e la società che ne risulta una “una persona di persone”.

2b- Nel marxismo e nei movimenti politico-sociali che ha generato, l’uomo è certamente il prodotto dell’intersezione tra forze produttive e rapporti di produzione – dunque un prodotto sociale – ma la sua realizzazione/liberazione non è immanente a lui stesso, si sviluppa a partire dal suo radicamento fuori di sé, nella trascendenza del movimento storico di liberazione.

In ambedue i casi, la trascendenza ontologica e la trascendenza della storia collettiva rispetto all’individuo sono dimensioni essenziali della persona che vive sì nel presente, ma che è orientata all’altro, si gioca dentro un destino condiviso con gli altri. La crisi della visione progressista, nella sua versione cattolica e in quella di sinistra, in forza della quale la persona dispone di una propria energia originaria di cambiamento della storia, ha consegnato il Paese, i suoi mass-media, i suoi opinion-maker, la sua scuola, le sue strutture educative  ad un agnosticismo fatuo, ad un nichilismo  disperato, ad una solitudine passiva, senza storia.

 

Allegria di naufragi

Poiché “del doman non c’è certezza”, soprattutto dopo la peste del 2020, ci troviamo senza patria e senza storia e ci dedichiamo a consumare bulimicamente il presente, la cui fruizione non deve essere minimamente differita. Perché, dunque, fare figli? Meglio, eventualmente, un animale di compagnia! La patologia è sempre la stessa: un Paese inebetito dal populismo sovranista ed assistenziale non ha più voglia di futuro. E perciò collassa, in una generale “allegria di naufragi”. Sì, una “riforma intellettuale e morale” del Paese aiuterebbe…

 

(Editoriale da www.santalessandro.org del 18 luglio 2020)

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