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Ci sono ancora le condizioni per aprire una nuova fase di liberalismo inclusivo?

Norberto Dilmore Michele Salvati martedì 21 Novembre 2023
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di Norberto Dilmore e Michele Salvati

 

Due anni fa una sessione della riunione annuale di LibertàEguale fu dedicata alla presentazione del nostro libro, “Liberalismo inclusivo”. Al tempo sembravano esserci le condizioni per l’affermazione di una nuova narrativa in grado di prendere il posto del neoliberismo, la grande narrativa dominante nel periodo che va dall’inizio degli anni ’80 alla grande crisi finanziaria. Negli Stati Uniti, Joe Biden era diventato presidente da alcuni mesi e aveva già introdotto misure forti per far uscire gli Stati Uniti dalla crisi pandemica in un modo che avrebbe ridotto le diseguaglianze. Inoltre, Biden sperava di far approvare rapidamente dal Congresso Build Back Better (BBB), un audace piano che comprendeva importanti investimenti infrastrutturali, una reindustrializzazione mirata attraverso la promozione di settori strategici (semiconduttori, AI, ecc.), la decarbonizzazione dell’economia grazie a forti sussidi alle produzioni di natura ecologica, e, last but not least, l’ulteriore sviluppo del welfare state, che avrebbe ridotto significativamente povertà e diseguaglianze e contribuito al rafforzamento del capitale umano statunitense. Al fine di favorire la riduzione delle diseguaglianze nel settore privato senza utilizzare direttamente le prerogative redistributive dello stato, BBB conteneva anche disposizioni volte a rafforzare il sindacato e il potere contrattuale dei lavoratori, dando loro la possibilità di partecipare più attivamente alla vita dell’impresa e di avere un più forte potere negoziale nelle trattative salariali.

Nell’Unione Europea, la recente approvazione di Next Generation EU, volta ad accelerare la ripresa, evitare la frammentazione economica dell’Unione e promuovere la transizione ambientale e digitale, rappresentava un importante cambio di passo rispetto alle politiche ordoliberiste di austerità che avevano prolungato la Grande Crisi Finanziaria. Inoltre, i principali paesi europei erano guidati da leaders -Draghi, Macron, Sanchez, Scholz- che condividevano l’obiettivo politico di ridare dinamismo all’Unione, in un modo però che fosse compatibile con la riduzione delle diseguaglianze e la transizione ecologica. Infine, in Giappone di li a qualche giorno sarebbe diventato primo ministro Fumio Kishida, un leader conservatore che però e’ anche un fautore dell’abbandono dell’approccio neoliberista di alcuni dei suoi predecessori in favore di una “nuova forma di capitalismo” in cui “il settore pubblico e il settore privato lavorano assieme” e “le sfide sociali diventano un motore della crescita”. Questo comportava anche l’adozione di politiche redistributive volte a ridurre le accresciute disparità di reddito. Alla luce di tali sviluppi, credevamo, in modo troppo ottimistico … col senno di poi, “che già in questo decennio possano maturare le condizioni per aprire una nuova fase stabile,  “una nuova forma di liberalismo inclusivo”, poiché potenzialmente già esistono le condizioni per una sua materializzazione” (Liberalismo inclusivo, p. 11).

Due anni dopo

“Ci sono decenni in cui non succede nulla e ci sono settimane in cui sembrano essere passati decenni” (Lenin). Negli ultimi due anni le settimane forse non sono sembrate decenni, ma tali e tante sono le cose avvenute che l’insieme del periodo sembra temporalmente molto più lungo di un biennio. La guerra in Ucraina, l’attacco terroristico di Hamas contro Israele e il conflitto da esso generato, il forte aumento delle tensioni geopolitiche in Asia orientale hanno portato il mondo sull’orlo di una nuova guerra fredda. Di conseguenza, molti paesi stanno aumentando le loro spese militari e riorganizzano i propri sistemi produttivi al fine di mantenere il controllo di produzioni strategiche e assicurarsi che le catene di approvigionamento restino sul suolo nazionale o in nazione amiche (“friend shoring”). Barriere protezionistiche stanno riapparendo un po’ dappertutto. Le tensioni geopolitiche e geoeconomiche, insieme alle perturbazioni nelle catene dell’offerta generate dalla pandemia e alla forte ripresa, hanno prodotto una fiammata inflazionistica che si è dimostrata politicamente molto costosa per i governi in carica. 

Nel nostro angolo di mondo le forze sovraniste ed etno-nazionaliste continuano ad avanzare. Certo non si tratta di una marcia trionfale, come dimostrano le sconfitte subite in Polonia e Spagna. Tuttavia progrediscono in molti paesi europei: hanno conquistato l’Italia quasi senza combattere, in Slovacchia si è affermato il sovranismo pro-russo di una forza che nominalmente si definisce socialdemocratica, partiti etno-nazionalisti sostengono i governi di Svezia e Finlandia, in Germania, stando ai sondaggi, l’AfD è ormai il secondo partito e in Francia Marine Le Pen continua a rafforzarsi. Inoltre, i principali leaders europei sono in difficoltà e negli ultimi due anni sono stati indeboliti elettoralmente: dell’Italia si è detto, in Francia Macron ha speso molto capitale politico per far passare una controversa riforma delle pensioni, in Germania il governo Scholz è profondamente diviso e fatica a produrre una strategia politica coerente, mentre in Spagna Sanchez, dopo le recenti elezioni, dispone di una maggioranza risicatissima e fortemente condizionata dai partiti regionali. La questione di come affrontare l’inflazione e la riforma del sistema di governance europeo (e all’interno di esso il patto di stabilità) hanno inoltre fatto riapparire vecchie divisioni e indebolito l’unità di intenti che è esistita nel 2021 e parte del 2022 (la partenza di Draghi e l’arrivo di Meloni, pur non essendone la causa prima, hanno certamente contribuito a questo indebolimento). In Giappone, il governo Kishida è riuscito sì a stimolare la crescita (che nel 2023 sarà tra le più forti tra i paesi avanzati), ma i salari sono aumentati meno dell’inflazione, creando forte scontento. La “nuova forma di capitalismo” fatica a prendere forma, soprattutto dal lato redistributivo. Tutto questo ha reso Kishida fortemente impopolare e il tentativo di rafforzare la propria posizione attraverso uno stimolo fiscale di stampo elettoralistico sembra non essere riuscito nel suo intento, mettendo a rischio la sua leadership.

Gli sviluppi più preoccupanti riguardano però gli Stati Uniti. Il programma economico di Biden è stato (con un’eccezione di rilievo su cui torneremo) ampiamente realizzato. Anche grazie alla Bidenomics, la crescita economica è stata robusta e il paese è in piena occupazione. Ciononostante, la popolarità del presidente è bassa e meno del 40% dei cittadini statunitensi dà un giudizio positivo della Bidenomics. In teoria quest’ultima avrebbe dovuto essere un cavallo di battaglia per la sua rielezione, ma per il momento non sembra essere il caso. Come spiegare questa situazione? Vi sono cause economiche ed extraeconomiche. Partiamo da queste ultime. Gli Stati Uniti sono sempre più polarizzati e questo conduce gli elettori di una parte politica a non riconoscere eventuali meriti dell’altra. Di conseguenza, nei sondaggi molti repubblicani, pur ammettendo che la loro situazione economica è migliorata, indicano che il paese si sta muovendo nella direzione sbagliata. La decisione di Biden di ricandidarsi è un’altra causa extraeconomica dell’impopolarità della Bidenomics. Molti elettori democratici e indipendenti avrebbero preferito un/una candidato/a più giovane e sono frustrati dalla decisione di Biden di ricandidarsi, per cui non sono disposti a riconoscergli i successi ottenuti, inclusi quelli in campo economico. 

Passando ora alle cause economiche, la fiammata inflazionistica del 2022 e il conseguente rapido aumento dei tassi d’interesse sono sicuramente le cause principali dell’impopolarità della Bidenomics. Il forte stimolo fiscale introdotto subito dopo le elezioni (circa il 10% del PIL) ha avuto effetti inflazionisti, anche se la situazione è stata aggravata dalle perturbazioni nelle catene dell’offerta e dall’aumento dei prezzi delle materie prime in seguito all’invasione russa dell’Ucraina. Anche se l’inflazione statunitense è in calo, essa è sentita più fortemente poiché ancora elevata e ben visibile nei beni di prima di necessità, nella volatilità del prezzo della benzina e nei prezzi delle case e negli affitti. Di conseguenza, anche se i salari nominali sono aumentati, molti elettori con redditi medio-bassi non hanno percepito un miglioramento nelle loro condizioni di vita, mentre gli effetti redistributivi dello stimolo fiscale iniziale (che per esempio dimezzò la povertà infantile) stanno svanendo. In realtà questo non sarebbe dovuto accadere. Build Back Better prevedeva un rafforzamento significativo del welfare state che avrebbe dovuto evitare una tale situazione. Tale rafforzamento doveva finanziato da un aumento dell’imposizione sui redditi più elevati e sulle imprese, rafforzando l’impatto redistributivo ed evitando effetti inflazionisti. Tuttavia, due senatori democratici centristi (che in seguito hanno abbandonato il partito democratico) si opposero a tali misure, amputando la Bidenomics di uno dei suoi pilastri, con effetti demotivanti sulle minoranze e gli elettori con un basso reddito.   

In un tale contesto, la rielezione di Biden è lungi dall’essere assicurata e non si può escludere che Donald Trump, che per il momento sembra non avere rivali in campo repubblicano, venga eletto. Se questo dovesse accadere, le prospettive di successo di una nuova forma di liberalismo inclusivo in questo decennio nel nostro angolo di mondo si ridurrebbero drasticamente. Questo non esclude però che alcuni paesi avanzati possano muoversi in quella direzione, anche se troverebbero venti internazionali fortemente contrari. Se Trump dovesse essere eletto presidente, abbiamo i nostri dubbi che la narrativa sovranista ed etno-nazionalista produrrebbe un ordine internazionale politico ed economico stabile. Quel che probabilmente avremo sarà una lunga fase di transizione, un interregno di tipo gramsciano in cui purtroppo vedremo “i fenomeni morbosi più svariati” (con Trump possiamo esserne sicuri).

Tuttavia, un tale scenario sfavorevole è lungi dall’essere certo e c’è ancora un anno di qui alle elezioni presidenziali di novembre. Se l’Amministrazione Biden riuscirà a evitare una recessione nonostante la stretta monetaria e i risultati ottenuti in campo economico saranno meglio percepiti (per esempio nella seconda metà di quest’anno i salari reali sono saliti al di sopra dei livelli pre-pandemici, mentre l’inflazione continua a rallentare), l’economia potrebbe giocare un ruolo positivo per i Democratici nelle elezioni di novembre. Questo, insieme a temi non economici quali l’aborto e il pericolo di derive autoritarie nel caso Trump fosse eletto, potrebbe alla fine far rieleggere Biden. Una vittoria democratica negli Stati Uniti l’anno prossimo consentirebbe di rilanciare la narrativa di una nuova forma di liberalismo inclusivo e ridare vigore alle forze politiche che nell’Unione Europea e più in generale nel nostro angolo di mondo aderiscono a una tale narrativa.

I pilastri di una nuova forma di liberalismo inclusivo

Mentre rinviamo al nostro libro per le politiche concrete che potrebbero caratterizzare questa nuova fase di liberalismo inclusivo, continuiamo a pensare che essa debba poggiare su tre pilastri: crescita, riduzione delle diseguaglianze e transizione ecologica e digitale. Naturalmente queste tre dimensioni si alimentano vicendevolmente, ma troppo spesso si commette l’errore di pensare che una di esse possa trainare le rimanenti: tra di esse può esserci sinergia, ma anche conflitto.

Sovente, a sinistra, si pensa che la redistribuzione unitamente alla transizione ecologica e digitale possano da sole essere il motore della crescita: ma questo purtroppo non è il caso. Per aumentare il potenziale di crescita dell’economia, creando così risorse sia per ridurre le diseguaglianze e finanziare gli enormi investimenti in produzioni verdi e in settori ad alta tecnologia, sono necessarie misure specifiche per innalzare la produttività dell’economia nel suo insieme e aumentare l’efficienza dell’allocazione delle risorse. Senza di esse, il circolo virtuoso sperato non verrà innescato e l’esperimento fallirà. E vi saranno al contrario contraccolpi politici non da poco, come si è visto in recenti elezioni. Per esempio, per quel che riguarda la transizione ecologica, le cose sono andate relativamente bene finché si è trattato di allocare risorse in questa direzione. Tuttavia le regolamentazioni sempre più stringenti circa l’efficienza energetica dell’automobile, dell’abitazione o del riscaldamento si traducono in costi crescenti per le famiglie e, se non vi sono risorse per compensare queste perdite, gli elettori -in particolare quelli con redditi bassi e medio-bassi- verranno attratti da forze e movimenti politici negazionisti o che propugnano un approccio più graduale nei confronti della transizione ecologica, al fine di non danneggiare l’economia e di non intaccare il reddito disponibile delle famiglie. Questo rischio diventerà una vera e propria minaccia se Trump dovesse vincere le elezioni. A che pro fare tutti questi sforzi per raggiungere la neutralità delle emissioni di carbonio, se poi gli Stati Uniti, probabilmente seguiti da molti paesi emergenti, decidono di imboccare una strada diversa?

Tuttavia, bisogna anche evitare di cadere nell’errore opposto: pensare -come fanno talora esponenti centristi, sovente influenzati da idee neoliberiste- che la crescita possa di per sé risolvere il problema della diseguaglianza e allo stesso tempo condurre a buon fine la transizione ecologica e digitale, senza bisogno di cambiamenti significativi nel modo in cui le risorse sono distribuite. Come nel contesto attuale la redistribuzione da sola non può essere il motore della crescita, così la crescita non può di per sé garantire che le diseguaglianze tenderanno automaticamente a ridursi. Considerare che al più bastino aggiustamenti al margine per ottenere un tale risultato è un’illusione. Se si vuole creare un blocco sociale maggioritario stabile attorno alla narrativa di una nuova forma di liberalismo inclusivo bisogna far sì che le classi sociali con redditi bassi e medio-bassi percepiscano che chi ha redditi più elevati e maggiore ricchezza contribuisce in modo equo allo sforzo collettivo.

Questo è particolarmente vero nella prospettiva che negli anni a venire si debba aumentare la quantità e qualità dei beni pubblici europei, come sostenuto nel “Manifesto per l’Europa”, che verrà presentato da Marco Buti alla riunione di Orvieto di quest’anno. Alcuni di questi beni pubblici non implicano spese supplementari e in alcuni casi possono anche ridurle. Tuttavia, gli investimenti per la transizione ambientale e digitale, nonché l’aumento delle spese (nazionali ed europee) per la difesa e per gli aiuti allo sviluppo, i finanziamenti per la ricostruzione dell’Ucraina e per politiche industriali europee mirate, richiedono risorse addizionali importanti. Se si vuole che vi sia consenso attorno ad esse, i detentori di redditi più elevati e maggiore ricchezza devono contribuire al finanziamento di questi beni pubblici in misura significativamente maggiore di quanto non contribuiscano attualmente al finanziamento della spesa pubblica nazionale ed europea. In tempi di emergenza, i governi hanno saputo richiedere alla parte più ricca della propria popolazione sacrifici maggiori che in tempi “normali”. Non c’è dubbio che stiamo vivendo uno di questi momenti di emergenza ed è dunque fondamentale che si introducano misure decise per ridurre le diseguaglianze e rafforzare la coesione nazionale ed europea.

Se non si fa questo, le forze sovraniste ed etno-nazionaliste avranno buon gioco nel denunciare la “famelica” burocrazia di Bruxelles; nel propugnare strategie non-cooperative e rivendicative nei confronti dell’Unione Europea, facendo cadere su di essa la responsabilità di politiche fallimentari a livello nazionale; nel minimizzare la necessità della transizione ambientale e nell’indicare negli stranieri e negli immigrati coloro che devono sopportare il peso dell’aggiustamento. All’argomento redistributivo si potrebbe però obiettare che in Gran Bretagna Starmer e il Labour Party stanno puntando tutto sull’accelerazione della crescita, mentre hanno messo in sordina gli elementi redistributivi del programma elettorale. Si può comprendere che Starmer, per vincere le elezioni con un ampio margine, cerchi di ingraziarsi tutti coloro che sono stati delusi dai conservatori, compresi i ceti sociali più abbienti. Ma una cosa sono le elezioni e un’altra l’azione di governo. Puntare solo sulla crescita è una mossa rischiosa, non solo perché, anche per gli sviluppi demografici, il potenziale di crescita è difficile da innalzare: un paio di decimi di punto sarebbe già un buon risultato per gli economisti, ma non per gli elettori, che si attendono molto di più. Inoltre, come ha sperimentato Joe Biden suo malgrado, l’assenza di un forte pilastro redistributivo nell’azione di governo rappresenta nella situazione attuale un handicap pesante: anche in una situazione di forte crescita e di piena occupazione, gli elettori con redditi bassi e medio-bassi non premiano la politica economica adottata se non percepiscono un  miglioramento nel proprio reddito disponibile e una maggiore partecipazione dei più ricchi alle misure necessarie per produrre questo risultato.

Prima di concludere, un’ultima osservazione. Nel nostro libro c’era solo un breve capitolo sull’Italia e sulle politiche liberali e socialdemocratiche che suggerivamo ai governi del nostro paese: come in questo articolo, l’attenzione si concentrava sull’insieme dei paesi del nostro “angolo di mondo”. Una settimana prima dell’incontro di Orvieto ha avuto luogo a Eupilio (Lecco) una riunione di LibertàEguale Lombardia e di altre associazioni riformiste di quella regione. Molti interventi erano focalizzati sulle misure di cui l’Italia ha bisogno per realizzare con successo il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, rafforzare il suo potenziale di crescita, ridurre le diseguaglianze e condurre in porto la transizione ambientale e digitale. Ad essi rinviamo per avere un’idea delle proposte concrete che potrebbero determinare l’apertura di una nuova fase di liberalismo inclusivo nel nostro paese.

Una nuova forma di liberalismo inclusivo è ancora possibile e/o auspicabile?

Per concludere, a due anni dall’uscita del nostro libro, constatiamo che le condizioni per aprire una fase stabile caratterizzata da una nuova forma di liberalismo inclusivo sono diventate assai meno favorevoli. Allo stesso tempo, di fronte al crescente disordine mondiale in generale e nel nostro angolo di mondo in particolare, pensiamo che le ragioni per auspicare una nuova forma di liberalismo inclusivo si siano ulteriormente rafforzate. Quando scrivemmo il libro, avevamo pensato come titolo “Liberalismo inclusivo: un futuro possibile e auspicabile per il nostro angolo di mondo”. L’editore ci fece giustamente notare che era troppo lungo e che dovevamo scegliere tra i due aggettivi. Al tempo scegliemmo, crediamo giustamente, “possibile”, mentre oggi l’enfasi probabilmente cadrebbe su “auspicabile”. Siamo però convinti che, anche nelle difficili condizioni attuali, obiettivi di liberalismo inclusivo possano essere raggiunti in alcuni paesi del nostro angolo di mondo. E che, in ogni caso, tali obiettivi debbano restare un orizzonte programmatico per tutti i partiti e movimenti che si ispirano a ideali liberali e socialdemocratici.

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