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Il senso di Draghi al Colle

Giorgio Tonini giovedì 20 Gennaio 2022
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di Giorgio Tonini

 

L’elezione del Presidente della Repubblica, questa volta più che mai, riveste per l’Italia un concreto significato storico. Nella scelta del nome più adatto a ricoprire la carica più alta prevista dalla Costituzione, è infatti ineludibilmente contenuta una risposta alla domanda cruciale per il futuro del paese: la grande e lungimirante operazione politica, che con la sapiente e paziente maieutica del presidente Mattarella, ha portato per gradi successivi alla nascita del governo Draghi, deve essere considerata come una parentesi, da chiudere il prima possibile, al più tardi tra un anno, al termine della legislatura, o va invece vista come uno spartiacque, nella vicenda storico-politica dell’Italia contemporanea?

In una certa misura, il governo Draghi è certamente una parentesi: difficile pensare che l’unità nazionale e la fiducia di una base parlamentare così vasta ed eterogenea, sulle quali si fonda l’attuale esecutivo, possano durare molto più del mandato delle Camere attuali. Il problema è capire se, al termine di questa fase inevitabilmente transitoria, si pensa di poter e dover tornare allo stato di fatto preesistente, o se invece si ritiene che l’esperienza delle “convergenze parallele”, attorno al governo Draghi, possa e debba restare come un’acquisizione condivisa da larghissima parte dello schieramento delle forze politiche italiane, in quanto la si considera per l’appunto uno spartiacque, una cesura, un passaggio di discontinuità largamente positivo, nella travagliata evoluzione del nostro difficile sistema politico.

L’attuale legislatura, prossima a entrare nel suo ultimo anno di vita, è stata caratterizzata dal confronto tra populismi e riformismi, nello scenario inedito prodotto dalla pandemia da Covid-19. Un confronto moderato dalla crescente autorevolezza del presidente Mattarella. Un confronto che, nella campagna elettorale del 2018 e nella fase segnata dal primo governo Conte, espressione dell’asse populista e antieuropeista tra il movimento Cinquestelle e la Lega Salvini, aveva assunto le sembianze dello scontro frontale e della tensione permanente. Il fallimento del primo governo Conte ha tuttavia aperto una fase nuova, segnata dal dialogo tra populismo e riformismo e più precisamente tra Cinquestelle e Partito democratico: un dialogo reso possibile dalla svolta maturata in Europa con l’elezione della nuova Commissione, presieduta da Ursula von der Leyen. Anche grazie al ruolo svolto dal Pd (un nome per tutti, quello del compianto David Sassoli, presidente del parlamento europeo), l’Europa ha finalmente affiancato all’attenzione alla stabilità monetaria e finanziaria, quella per la crescita e l’occupazione, a cominciare da quella giovanile. Un riequilibrio di impostazione politica e programmatica che ha consentito all’Europa di far fronte, con relativo successo, alla pandemia, con i suoi spaventosi costi umani e alla drammatica recessione economica del 2020, coi suoi pesanti risvolti sociali. Il compromesso tra populismo e riformismo, tradotto nella convergenza tra Cinquestelle e Pd nel sostegno al secondo governo Conte, ha così potuto sostanziarsi innanzitutto proprio nell’intesa sulla nuova Europa, con l’abbandono da parte dei grillini degli slogan antieuropei e la fiducia alla nuova Commissione, e con il forte impegno del Pd per una politica economica europea in grado di farsi carico delle ragioni profonde della protesta populista, perché di segno espansivo, orientata alla crescita sostenibile, alla qualità ambientale, alla piena e buona occupazione, alla coesione sociale.

Il varo del grande programma europeo “New Generation EU”, con l’attribuzione all’Italia della quota più rilevante delle ingenti risorse messe in campo, ha reso necessario un governo più autorevole nella sua composizione e supportato da una più ampia base parlamentare, che comprendesse anche lo schieramento di centrodestra. È da questa ampiamente condivisa assunzione di responsabilità, attorno ad una convergente visione del ruolo dell’Italia in Europa, che ha tratto origine e si è affermato il governo Draghi, come continuamente ricorda lo stesso presidente del Consiglio. Un governo che ha riportato il sistema politico italiano nell’alveo dei principi “degasperiani” fondativi della Repubblica, a cominciare dall’europeismo, dall’atlantismo, dal multilateralismo e dall’economia sociale di mercato, scongiurando il rischio di deragliamento insito nella versione aggressiva del populismo. Un governo che ha potuto realizzare questo risultato storico, proprio perché ha assunto e non demonizzato le ragioni profonde di malessere sociale, imprimendo una decisa correzione di impostazione alla politica economica e sociale europea.

Come far vivere la straordinaria conquista nazionale della convergenza “degasperiana” alla base del governo Draghi, nel passaggio decisivo dell’elezione del nuovo Presidente della Repubblica, dovrebbe essere il principale rovello di tutte le forze politico-parlamentari, in definitiva di tutti i Mille grandi elettori. Se così sarà, verrà naturale escludere, come ipotesi da non prendere neppure in considerazione, qualunque scenario che comporti la rottura della convergenza su cui si fonda e che sostiene il governo, prefigurando candidature marcatamente e quasi provocatoriamente di parte. E sarà altrettanto naturale raccogliere il convergente appello dei due Letta: lo zio Gianni, che ha auspicato un voto in Parlamento che faccia tesoro della lezione di Sassoli, guardando al paese e non agli interessi di parte; e il nipote Enrico, che ha schierato il Pd sulla proposta di “giungere rapidamente a una scelta condivisa dell’arco di forze parlamentari più ampio possibile, a partire da quelle dell’attuale maggioranza”, individuando insieme “una figura di alto profilo istituzionale, che rappresenti indiscutibilmente i valori dell’unità della Nazione, e quindi non di parte”. Un identikit al quale non è difficile attribuire un nome e un cognome, a cominciare da quello del Presidente del Consiglio, quello che meglio può rappresentare la determinazione condivisa dell’intero arco parlamentare a non considerare il faticoso cammino, che ha portato al governo Draghi, come una parentesi da chiudere bruscamente o al massimo da far sopravvivere stancamente fino alla fine della legislatura. E ad assumerlo invece come uno spartiacque storico, da far vivere anche nelle e dopo le prossime elezioni politiche, quando auspicabilmente si confronteranno, dinanzi agli elettori, non opposti e inconciliabili estremismi, ma un centrodestra e un centrosinistra accomunati dal riconoscimento dei medesimi, “degasperiani” valori repubblicani. E dall’aver scelto in modo convergente il loro supremo garante.

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