LibertàEguale

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di Giovanni Cominelli

 

Il regime democratico è nato il 25 aprile 1945. Grazie alla Resistenza? Non solo, né principalmente. I 350 mila ragazzi degli eserciti alleati, sepolti ciascuno, nome per nome, sotto le croci bianche dei cimiteri di guerra, sparsi in tutta Italia, ne sono la tragica controprova.

Il 25 aprile in Italia è una festa nazionale, perché la Nazione non è stata solo oggetto, ma soggetto della Liberazione, perché vi hanno contribuito la Monarchia, alleata degli Alleati dopo l’8 settembre, l’Esercito, il CLN, che lancia il movimento di Resistenza, e il popolo. Tutto? Non proprio tutto. Dimenticare la grande zona grigia che si estendeva tra Fascismo e Anti-fascismo è un cattivo servizio di una memoria debole.

Il Fascismo è finito il 25 aprile del 1945. Ha continuato a finire negli anni successivi, proprio attraverso i suoi nostalgici eredi, da Almirante a Gianfranco Fini, a Giorgia Meloni. Bisognerà che la sinistra si decida ad accettare questa evidenza. Se vuole combattere la cultura e la politica della destra, meglio che non si nasconda sotto il velo dell’antifascismo. Meglio se propone cultura politica e programmi.

L’antifascismo gridato nelle piazze o in “Bella Chat” non basta. Non è mai bastato. Se la sinistra è contraria, come sembra, al premierato, perché farlo in nome dell’antifascismo? Ha dimenticato che nel 1997-98 era favorevole al semi-presidenzialismo? Con i criteri di oggi non sarebbe fascistissimo?

Se è contraria all’occupazione governativa, talora sguaiata, della TV pubblica, perché, dopo aver fatto una doverosa autocritica sui decenni precedenti, non propone che i partiti liberino definitivamente l’ostaggio dell’informazione pubblica dall’occupazione di partito?

Aldo Cazzullo, giornalista del Corriere della Sera e spesso in TV, ha sostenuto la tesi che se la celebrazione del 25 aprile è ridiventata settaria, dopo anni tranquilli, dal 1994 in poi, ciò si deve al fatto che “la destra ha sempre rifiutato di riconoscersi in un patrimonio di valori comuni”.

La riesumazione della dialettica fascismo-antifascismo sarebbe stata opera di Berlusconi, perché gli conveniva elettoralmente. Conveniva molto meno ai post-comunisti, “avviati al compito ciclopico di costruire un nuovo campo progressista col cattolicesimo democratico e dunque interessati a seppellire per sempre il muro contro muro ideologico”.

Insomma, alla domanda su chi abbia incominciato per primo, su chi ha dato il primo spintone, Cazzullo risponde: Berlusconi! I post-comunisti hanno dato soltanto il secondo, per reazione. Ma “chi c’era” ha ricordi diversi. Berlusconi meditava da qualche anno di “scendere in campo”.

Il primo gesto politico ufficiale fu l’appoggio a Fini nelle elezioni comunali di Roma del 1° novembre 1993. Per la sinistra post-comunista fu già la prova che Berlusconi era filo-fascista. Ma non se preoccupò più di tanto: quando il Cavaliere “discese” in campo, il 26 gennaio 1994, D’Alema lo dava ancora e solo al 6%.

Discese in campo facendo appello all’anticomunismo. In realtà il comunismo, all’epoca, era morto almeno quanto il fascismo. Ma alla sinistra, tramortita dalla sconfitta del 27-28 marzo 1994, non parve vero di poter mettere insieme nel contrasto a Berlusconi l’accusa di anticomunismo e di filo-fascismo, il secondo conseguenza necessaria del primo.

Da allora i 25 Aprile hanno tagliato fuori Berlusconi e gli esponenti della destra dall’ “idem sentire” resistenziale-repubblicano, almeno fino al discorso di Onna del 25 Aprile 2009, nel quale egli prese ufficialmente atto che quello era il giorno della Festa della libertà, perché in quel giorno la libertà era stata liberata dalla Resistenza.

Sì, a Berlusconi ha fatto comodo, come sottolinea Cazzullo, evocare l’anticomunismo, ma solo perché per i post-comunisti continuarono a funzionare le equazioni: anticomunismo=filofascismo e antifascista=democratico. Equazioni false: perché si può essere antifascisti, ma anche antidemocratici. Tutti i comunisti sono stati antifascisti, non tutti democratici. Vedi alla voce Stalin e seguaci. Simmetricamente, non tutti gli anticomunisti sono stati democratici, ma si può essere anticomunisti ed essere democratici.

Il bando che la sinistra ha decretato, ad ogni rintoccar del 25 Aprile, verso gli esponenti della destra non è stata colpa delle mosse di Berlusconi verso gli eredi del MSI, ma della propria equazione-trappola: che l’anticomunismo tenda fatalmente verso il filo-fascismo.

Augusto Barbera, attuale presidente della Corte costituzionale, il 25 aprile 2009 scrisse un articolo sul Secolo XIX, nel quale proponeva di concentrare nel 25 Aprile la Festa della liberazione e la Festa della Repubblica, oggi del 2 giugno. Il Secolo XIX ha deciso meritoriamente di ripubblicarlo il 27 aprile scorso.

Unirci sul 25 Aprile, perché è di lì che gli Italiani hanno incominciato a tessere l’arazzo complicato della democrazia italiana. Quel giorno unitario sarebbe la condensazione istituzionale di una memoria condivisa, la fine del rancore reciproco, la sutura di una ferita che non si decide a guarire: la Festa della Nazione.

Una tale Festa non può essere convocata dall’ANPI, ma dalle istituzioni della Repubblica: dai Comuni, dalle Regioni, dal Parlamento, dalla Presidenza della Repubblica.

Sulla proposta Barbera tutte le Associazioni partigiane potrebbero/dovrebbero raccogliere centinaia di migliaia di firme per una proposta di legge popolare. Così l’ANPI e la FIAP ritroverebbero un ruolo culturale ed educativo rispetto alle giovani generazioni, che non hanno memoria della Resistenza e poco sentore della Repubblica. Sennò sono destinate alla scomparsa o, come nel caso dell’ANPI, a trasformarsi nel refugium peccatorum di tutti i frammenti della sinistra radicale.

Il 25 aprile di Roma e di Milano ha mostrato per l’ennesima volta che il 25 Aprile è diventato una zattera, dove ogni anno ciascuno porta i materiali più eterogenei. Ogni difensore di nobili cause, vere o presunte, si infila nella manifestazione e viene a gridare le proprie ragioni, più o meno fondate.

Sta già comparendo all’orizzonte la… “resistenza climatica”. Quest’anno a Milano c’erano “i maranza”, gruppi di giovani teppisti, molti dei quali figli di immigrati di seconda generazione, che calano dall’hinterland e dalle periferie verso il centro, per segnalare la propria estraneità violenta al Paese nel quale si trovano a vivere, fruendo delle opportunità e delle libertà che proprio la Resistenza ha instaurato e che mancano nei Paesi di origine.

È ora di far rispettare i confini del 25 Aprile. Dentro questi confini sta la Brigata ebraica, che ha pagato un prezzo alla liberazione dell’Italia. Fuori devono stare i Palestinesi. I quali hanno diritto di manifestare per la propria causa ogni giorno dell’anno, ma nulla c’entrano con la storia d’Italia e con il nostro 25 Aprile.

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