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di Dario Parrini

 

Introduzione alla sessione domenicale dell’Assemblea di Libertà Eguale – Orvieto, 29 settembre 2019

Nonostante della vocazione maggioritaria si discuta da decenni, immutata è l’esigenza di definirla in maniera appropriata, dissipando fraintendimenti e falsi luoghi comuni.
Un partito è a vocazione maggioritaria se è un grande partito che si rivolge all’insieme della società, se è in grado di parlare a un’ampia parte della popolazione, se sa rappresentare interessi generali, larghi, nazionali.

In particolare, una forza politica di centrosinistra, con un’identità progressista e dotata di cultura di governo, è a vocazione maggioritaria se sa guardare contemporaneamente al centro e a sinistra, se sa rappresentare in modo unitario elettorati radicali, riformatori e moderati, elettori del ceto medio e delle classi popolari; se è plurale e sa quindi garantire spazi di azione a tutte le quattro grandi componenti del riformismo italiano (quella socialdemocratica, quella liberaldemocratica, quella cattolico-democratica e quella ambientalista) e a tutte le componenti del mondo del lavoro; se punta, pur riconoscendo che una politica delle alleanze è imprescindibile, sulla propria capacità di espandere in maniera ragguardevole i propri consensi in condizioni di volatilità elettorale elevata e senza precedenti. Condizioni nelle quali i partiti, come abbiamo visto in Italia tra il 2013 e il 2019, possono passare dal 25 al 41% in un anno, dal 41 al 19% in quattro anni, e dal 34 al 17%, e viceversa, in meno di due anni.

L’idea che uno spirito maggioritario presupponga un sistema elettorale maggioritario non fa i conti con la realtà.

Innumerevoli sono stati e sono i casi di partiti a vocazione maggioritaria operanti entro sistemi proporzionali.

La capacità di un partito di essere a vocazione maggioritaria dipende fortemente dall’assetto e dagli obiettivi che si dà ed è sostanzialmente indipendente dal sistema elettorale che regola lo spazio politico in cui esso si muove.

Un partito a vocazione maggioritaria non è un partito che coltiva l’autosufficienza e disdegna aprioristicamente le coalizioni. Piuttosto è un partito che costruisce coalizioni di programma partendo da posizioni di forza.

Nell’area di centrosinistra dello scacchiere politico italiano l’esistenza di un partito-pilastro, che agisca da baricentro della coalizione alla quale appartiene o che vuol realizzare, è indispensabile oggi come quindici anni fa.

Attualmente il compito della sinistra liberale italiana – in uno scenario tripolare contraddistinto dall’esistenza di aggressive forze anti-sistema pronte a lucrare spietatamente sulle paure dei perdenti della globalizzazione e contrarie all’euro, all’Ue e alla tradizionale collocazione internazionale dell’Italia – è prima di tutto quello di riaffermare questa evidente verità, ribadendo, per questa via, l’incoerenza e la sterilità di strategie basate sull’idea che piccoli partiti possano esercitare una sufficiente forza attrattiva ed essere il motore di cambiamenti politici decisivi, oppure sull’idea malsana della divisione dei compiti tra centro e sinistra, cioè l’idea che il campo riformista possa raggiungere risultati apprezzabili se si struttura attorno a due forze distinte, forzatamente di proporzioni non ragguardevoli, una delle quali recita la parte della sinistra socialdemocratica, mentre l’altra recita la parte del centro liberaldemocratico e/o cattolico-democratico, nella convinzione, illusoria, che in questo modo si giungerà a massimizzare il consenso della coalizione progressista nel suo insieme.

Questa visione fallace ha prodotto delusioni cocenti già un paio di volte nella storia politica italiana recente. Per esempio nel 1994, quando il centro (il Patto per l’Italia di Martinazzoli e Segni) e la sinistra (i Progressisti di Occhetto) non seppero reagire con prontezza e lungimiranza all’irruzione dirompente e innovativa di Berlusconi sulla scena politica, visto che non raggiunsero un’intesa pre-elettorale nei collegi uninominali maggioritari da cui sarebbero scaturiti tre quarti degli eletti, convinti, gli uni e l’altro, che correndo separatamente avrebbero comunque ottenuto la maggioranza assoluta dei seggi, e che avrebbero quindi potuto, senza danno, unire le forze dopo le elezioni, dedicandosi ciascuno, in vista delle elezioni, alla coltivazione di una porzione non maggioritaria del corpo elettorale.

La teoria della divisione dei compiti tra centro e sinistra venne nuovamente applicata, in condizioni diverse rispetto a quelle del 1994, nel 2013, quando, con un sistema elettorale a un turno basato sul premio di maggioranza alle coalizioni, la sinistra (il Pd di Bersani) e il centro (l’alleanza Scelta Civica-Udc-Fli e altri guidata dal premier uscente Mario Monti) non fecero fronte comune, e così facendo mancarono largamente la maggioranza assoluta dei seggi al Senato (dove ottennero insieme solo 131 seggi su 315), e conquistarono per il rotto della cuffia la maggioranza assoluta alla Camera, dove la coalizione Pd-Sel e altri, denominata Italia Bene Comune, ottenne il premio di maggioranza, pari a 340 seggi, sopravanzando il centrodestra (Pdl-Lega Nord-Fdi-La Destra e altri) per appena 125 mila voti su 34 milioni, pari allo 0,4%.

Bersani pensando di poter aver convenienza a rivolgersi al solo elettorato di sinistra, e a delegare ad un altro soggetto la rappresentanza del centro, e Monti pensando che il centro avesse convenienza a impegnarsi in una corsa solitaria, commisero entrambi un errore di valutazione dalle conseguenze pesanti.

Mi si potrebbe obiettare che nel 1994 e nel 2013 erano vigenti sistemi elettorali fortemente maggioritari, che garantivano una disproporzionalità elevata: il centrodestra nel 1994 prese il 58% dei seggi della Camera (366 su 630) con il 43% dei voti, e nel 2013 Italia Bene Comune raccolse il 55% dei seggi alla Camera con il 30% dei voti.

Ma questa obiezione non tiene, perché anche con un sistema proporzionale, o ad assai bassa disproporzionalità come l’attuale legge Rosato, non è possibile raggiungere livelli adeguati di consenso e di stabilità senza l’esistenza di un grande soggetto a vocazione maggioritaria dotato di ampia capacità attrattiva.

Dalle considerazioni fin qui esposte discende che un partito a vocazione maggioritaria non è tale se non ha al proprio interno una forte componente social-liberale che lo ponga in grado di essere percepito credibile tanto sul terreno delle politiche (soprattutto delle politiche atte a consentire una efficace lotta contro le disuguaglianze e l’insicurezza economica nella misura in cui stimolano la produttività e la crescita attraverso il potenziamento del capitale umano, della ricerca e dell’innovazione, delle infrastrutture, della tutela ambientale e dell’efficienza della pubblica amministrazione) quanto sul terreno della strategia politica complessiva, perché idoneo ad attirare frazioni consistenti della massa sempre più ampia del voto fluttuante non ideologizzato e non fidelizzato.

Di conseguenza si può affermare che il Pd, l’unico partito del centrosinistra ancora capace di dispiegare un’ambizione maggioritaria, non potrà concretizzare tale ambizione se al proprio interno non saranno forti le idee e le scelte riformiste di sinistra liberale.

Un partito a vocazione maggioritaria, infine, in un contesto caratterizzato dalla necessità ineludibile di modificare la legge elettorale a fronte dell’ormai certo taglio del numero dei componenti le due camere, deve saper individuare quali meccanismi di traduzione dei voti in seggi, tra quelli realisticamente approvabili in questo Parlamento, abbiano caratteristiche che gli permettano di realizzare i propri obiettivi di fondo. A questo proposito appare poco sensato contrapporre schematicamente e semplicisticamente il maggioritario al proporzionale.

Ci sono, nelle condizioni date, sistemi elettorali maggioritari efficaci e inefficaci, così come ci sono sistemi proporzionali efficaci e inefficaci. Ad oggi, le scelte virtuose concretamente adottabili sono a mio giudizio soltanto due, nient’affatto equivalenti per natura e struttura, e diverse per gli incentivi che generano e i vincoli che si portano dietro, ma entrambe suscettibili di creare le condizioni per una riduzione della frammentazione del quadro politico, per il superamento di qualsiasi rischio di accentuata distorsione territoriale della rappresentanza e per la costruzione di coalizioni di governo ragionevolmente funzionanti: un proporzionale con elevata soglia di sbarramento, oppure un sistema fondato sul doppio turno nazionale e sulla possibilità di coalizioni prima del primo turno o tra primo e secondo turno.

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