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Tre questioni aperte per affrontare il “problema italiano”

Michele Salvati giovedì 3 Dicembre 2020
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di Michele Salvati

 

La riunione in remoto del direttivo di Libertà Eguale, il 28 novembre, è stata al sopra delle mie aspettative: ottima la relazione di Morando, efficacemente sintetizzata il 30 sul nostro sito, e molto buoni quasi tutti gli interventi. Come gruppo di teste pensanti e appassionate, che ragionano secondo la linea liberale di sinistra che l’associazione si è data sin dalla sua origine, ci siamo: l’appello finale di Morando e il suo giudizio negativo sul proporzionale e su governi di coalizione costruiti dopo il voto li faccio miei, anche se ciò comportasse che all’opposizione dovremo stare per un bel po’. Ma se vogliamo essere qualcosa di più di un gruppo di amici che si incontrano saltuariamente; se vogliamo influenzare il dibattito politico in corso; se vogliamo piegarlo nella direzione che tutti auspichiamo, occorre dissipare equivoci e riconoscere freddamente la cattiva situazione in cui ci troviamo come riformisti operanti nel nostro disgraziato paese.

 

Una finestra geopolitica favorevole

Certo, poteva andar peggio a livello geopolitico ed europeo; poteva vincere Trump, e la Merkel poteva non riuscire ad imporre il Next Generation EU. Data l’importanza di queste influenze esterne – Morando ha fatto benissimo a sottolinearla – l’Italia (e i riformisti liberali al suo interno) si sarebbero trovati in una situazione ben peggiore di quella comunque cattiva in cui si trovano oggi. Si tratta però di una finestra di opportunità, come ora si dice, una finestra attraverso la quale alcuni paesi dell’Unione o dell’Eurogruppo riusciranno a passare più agevolmente dell’Italia, perché meno condizionati politicamente, più produttivi economicamente, più efficienti amministrativamente, meglio organizzati sotto il profilo istituzionale.

 

Come si usa il Recovery Fund?

Oltretutto è una finestra destinata a chiudersi perché i fondi del Recovery Fund devono essere stanziati e utilizzati entro tempi relativamente brevi. E’ questo il tema su cui ho insistito nel mio intervento: il problema del declino italiano è in larga misura italiano e dev’essere risolto nel e dal nostro paese se l’Italia, oltre a migliorare le condizioni di vita dei propri cittadini, vuole contare qualcosa nelle grandi decisioni europee. Di questo ho scritto più a lungo nell’E-book della Fondazione PER di cui anche Morando ha parlato. Un esempio soltanto, al di là della cattiva gestione della pandemia.  Vogliamo riflettere su che cosa sta succedendo ora? Nell’assurdo dibattito su un improbabile rimpasto, quanto conta il desiderio di soggetti pubblici e privati di partecipare al tavolo in cui si spartiranno i 200 miliardi del Recovery Fund?

Anche un governo dominato da un unico grande partito e assistito da un’alta amministrazione efficiente farebbe fatica, nonostante le ragionevoli linee guida fornite dalla Commissione, a identificare i settori su cui puntare e a scegliere tra le infinite esigenze del paese. Una maggioranza composta da 5stelle e PD, più partiti minori ma molto “opinionated’’, riuscirà mai a definire in modo accettabile i progetti da finanziare e poi a garantirsi della loro corretta esecuzione? La proposta del presidente del consiglio su come organizzare il centro responsabile delle scelte che dovranno essere sostenute in Parlamento e poi in Europa è convincente per i riformisti del nostro paese? E’ vero che questo è il governo “meno peggiore” possibile date le circostanze. Ma i riformisti dovrebbero avere proposte anche per queste situazioni.

 

Destra/Sinistra, Apertura/Chiusura

Un secondo punto che non ho toccato nel mio intervento e che vorrei accennare qui riguarda il tema che ha sollevato Pietro Ichino (su Libertà Eguale: “Che cosa ci insegna il voto americano”) e che poi Morando ha ripreso e criticato, quello per cui l’esigenza di definirsi come Destra o Sinistra e quella di insistere maggiormente sugli aspetti liberali della nostra identità riformista (in particolare apertura contro chiusura) sarebbero incompatibili, “ortogonali”, o di qua o di là. Tra l’obiettivo di assicurare a tutti la maggiore eguaglianza di opportunità possibile date le circostanze (dunque destra/sinistra) e quello di assicurare ad ognuno la maggiore libertà possibile, anche nelle scelte economiche (apertura/chiusura) un conflitto ovviamente esiste.

Ma è proprio quello che l’esperienza socialdemocratica ha mostrato essere conciliabile. Per dei bis-bis-bisnipoti di Bernstein, l’esercizio non dovrebbe essere troppo difficile e comunque questo è il compito che dobbiamo assumerci anche in circostanza che sono più difficili di quelle dei trent’anni gloriosi, e quando tanti elettori, che una volta votavano per partiti di sinistra, sono stati attratti da partiti sovranisti, nazionalisti e securitari. Per un liberale di sinistra un equilibrio di liberalismo inclusivo, di conciliazione tra le due esigenze di cui dicevo, non è una soluzione di ripiego perché il socialismo sognato e perseguito in passato non è possibile nelle circostanze attuali.

E’ una soluzione migliore, da adottare anche se le circostanze fossero più favorevoli. Migliore per i valori che incarna, difficile ma non impossibile. Petruccioli ha fatto un intervento che ho molto apprezzato per spiegare proprio questo, un intervento che ha ripreso il bellissimo capitolo aggiunto alla nuova edizione del suo Rendiconto: “perché è così difficile uscire dal PCI”. Nessuna ortogonalità dunque per una sinistra liberale (“ortogonalità”, se così vogliamo definirla, c’è semmai con la sinistra tradizionale e con le posizioni dei 5Stelle), ma continua ricerca di conciliazione tra i due nuclei valoriali che distinguono la nostra posizione politica. E sono sicuro che anche Ichino a questa ricerca parteciperà.

 

Il rapporto dei riformisti con il populismo

Anche l’altro tema cui vorrei accennare non l’ho trattato nel mio intervento, ma quanto ha detto Tonini e soprattutto il riferimento che Morando ha fatto al suo articolo sul Foglio del 21 settembre scorso mi inducono a riprenderlo nel contesto della discussione del direttivo. All’articolo di Tonini (ripubblicato da Libertà Eguale) avevo reagito criticamente, sempre sul Foglio, il 7 ottobre: i pochi che si dilettano degli argomenti trattati (che cosa vuol dire egemonia? Può esserci egemonia culturale senza consenso popolare, cioè elettorale, in una democrazia liberale?) possono andare a rileggerli per valutare quale lo convince di più. Qui mi preme ricordare questo nostro piccolo dissenso per sottolineare la difficoltà della situazione in cui la sinistra liberale si trova: prospettive illusorie e consolatorie non sono utili. Sulla base di un’analogia con l’orientamento populista di parte del Partito Democratico americano tra la fine dell’800 e l’inizio del 900, a mio avviso non convincente, Tonini sostiene una tesi che in sé è corretta, ma priva di indicazioni concrete nella situazione italiana di oggi: che cosa vuol dire che non ci può essere pensiero democratico “che non contenga in sé una dose ragionevole e controllata di populismo”? Non è quello che aveva tentato di fare Renzi? E non è stato sconfitto -quando ha governato (bene, nell’insieme, e in modo realistico), e quando ha cercato di porre dei paletti costituzionali che consentissero la continuazione delle politiche avviate dal suo governo-  da coloro che del populismo offrivano dosi irragionevoli e incontrollate?

 

Questioni aperte

Insomma, il problema di come si può ottenere consenso popolare su un programma che abbia un minimo di realismo e lungimiranza, di come si possano sconfiggere venditori di fumo, demagoghi e incompetenti, nell’attuale situazione italiana resta del tutto aperto. Proprio come resta aperto il problema di “praticare una politica dal basso, partecipata, aperta, competitiva, antioligarchica e anti establishment” mentre da dieci anni, col breve intervallo del governo gialloverde, si sta nel governo e nell’establishment senza avere un consenso elettorale adeguato. Forse per merito dell’”egemonia culturale senza consenso”?

Hic Rhodus, cari amici, e il salto che ci è richiesto non é piccolo. 

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1 Commenti

  1. Paolo Ferioli giovedì 3 Dicembre 2020

    Il concetto di ortogonalità non è sinonimo di incompatibilità. Anzi, il concetto implica una completa compatibilità perché, in un piano in cui i due assi sono ortogonali, ogni punto rappresenta un valore sinistra/destra combinato con un valore aperturista/sovranista. Dovrebbe discutere con Ichino per chiarire fra voi la questione, altrimenti il rischio è che non vi comprendiate vicendevolmente.

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