LibertàEguale

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di Pasquale Pasquino

 

Con lezioni si vuole intendere qui ciò che le elezioni di novembre ci hanno insegnato sullo stato della democrazia liberale nel paese che, più ancora del Regno Unito, è all’origine di un modello di forma di governo che si è lentamente affermata (soprattutto nella sua versione parlamentare) in Europa e non solo, soprattutto dopo la Seconda guerra mondiale. L’insegnamento è in certa misura contrastato ma certamente interessante. 

 

La Costituzione americana dà segni di vecchiaia

Da un lato non è possibile negare che la costituzione, prodotta a Filadelfia nel 1787 da un piccolo gruppo di persone illuminate e di cultura britannica, da ormai segni di vecchiaia e fa fatica a governare i problemi che la società del secolo 21° ha di fronte a sé. La costituzione americana oltre ad essere la più antica costituzione, scritta e rigida, ancora in vigore nel mondo, è anche la più corta ed è per vari aspetti molto più vaga che quelle redatte in un contesto molto diverso, dopo l’ultima guerra, in paesi come l’Italia e la Germania.

In particolare, le competenze del potere presidenziale e del giudiziario e ancor più della Corte suprema sono solo abbozzate e riproducono per lo più la struttura della costituzione consuetudinaria dell’Inghilterra, dove in particolare il presidente eletto e il Senato federale prendono il posto del re e della Camera dei Lord.

La trasformazione fondamentale consisté nel dare al nuovo regime la forma “repubblicana”, come i padri fondatori non si stancarono di ripetere, cioè nell’assegnare carattere elettivo agli organi legislativo e esecutivo, oltre che a introdurre la struttura federale. È proprio la natura solidamente federale dell’Unione degli Stati americani che rappresenta un punto di forza e uno di debolezza dell’ordinamento politico costituzionale del sistema americano. Si pensi, da un lato, al disordine nella gestione della pandemia. Ma, dall’altro, al fatto che il potere politico è così largamente distribuito fra diverse sedi che il controllo di esso da parte del centro, che potrebbe abusarne, è praticamente impossibile.

 

Come è cambiata nel tempo la Costituzione Usa

È peraltro necessario sottolineare che la costituzione delle origini è andata lentamente trasformandosi, sia per il ruolo assunto dalla Corte Suprema, che un po’ alla volta è diventata anche una potente corte costituzionale, sia per quello del presidente che, soprattutto nel corso del secolo 20°, ha ampliato soprattutto in quanto capo del più potente esercito del mondo i suoi poteri nella politica internazionale di un paese che alle origini era del tutto marginale sulla grande scena del mondo dominata dalle potenze coloniali europee.

Ma si è modificata anche per il moltiplicarsi di “convenzioni costituzionali” – per esempio il numero dei giudici della Corte Suprema – di cui nulla dice il testo del 1787. Convenzioni e scambi di buone procedure, come ad esempio quelle che si sono affermate fra il presidente uscente e quello eletto, nel periodo di tempo abbastanza lungo che separa l’Election Day, all’inizio di novembre fino all’investitura presidenziale il 20 gennaio. Pensiamo anche al fatto che non esiste in America una legge elettorale nazionale ma leggi diverse nei cinquanta Stati talvolta arcaiche e farraginose.

 

I giudici della Corte Suprema sono ancora nominati a vita

Come ha osservato Stefano Passigli (Corriere della sera, 1 novembre) se guardiamo con gli occhi dello stato costituzionale di diritto contemporaneo alla vecchia Carta americana, non si può che restare stupiti di fronte al fatto che i giudici della Corte Suprema siano nominati a vita, il che sembra incompatibile con il repubblicanismo delle origini, che imponeva che gli alti organi del governo della società dovessero essere tutti elettivi e nominati per un lasso di tempi limitato (addirittura due anni per i membri della Camera dei Rappresentanti). Certo il carattere non elettivo dei giudici ha una eccellente ragion d’essere, garantisce la loro neutralità, o almeno ne è una delle precondizioni. Ma che i potentissimi giudici della più alta corte siano oggi nominati a vita stride con le basi stesse del governo repubblicano che era presentato da James Madison come l’orgoglio della nuova costituzione.

La struttura del Senato a sua volta è disproporzionale ad un grado estremo, perché assegna due Senatori a uno stato dell’Unione (il Wyoming) che ha 80 volte in meno il numero degli abitanti di un altro Stato (la California).

Richiamo questi difetti della più vecchia costituzione del mondo ancor oggi in vigore per attirare l’attenzione sul fatto che la democrazia americana, oltre alle le sue debolezze, si è trovata sotto attacco nel suo nucleo essenziale: le libere elezioni competitive da parte di un Presidente che si candidava al suo secondo mandato ripetendo – come fa ancora adesso e probabilmente continuerà a fare anche dopo – che se avesse perso le elezioni ciò era dovuto a supposti immaginari brogli elettorali e ad una cospirazione contro di lui.

 

L’aggressione di Trump alla legalità costituzionale

È dalla lontana guerra civile di secessione che non si è sentito in America un linguaggio talmente aggressivo nei confronti delle istituzioni. Un così determinato e sistematico sforzo di negare quella che è la base prima e il fondamento dell’autorità politica in una società basata sul governo rappresentativo. Un irrazionale timore si è diffuso in una parte della sinistra americana che Trump avrebbe trasformato la vecchia America democratica in una repubblica delle banane, dove alla sua possibile sconfitta avrebbe fatto seguito un golpe o scontri violenti fra fazioni rispettivamente favorevoli e ostili al candidato del partito Repubblicano. O che almeno i tentativi di far rovesciare il risultato delle elezioni, da subito chiaramente favorevole allo sfidante Democratico, avrebbero sconvolto e minato la procedura complessa dello scrutinio elettorale in particolare negli swing states, quelli dove da tempo ormai si decidono le sorti delle elezioni presidenziali, portando finalmente il conflitto davanti alla Corte Suprema, dove sei giudici conservatori tre dei quali nominati da Trump avrebbero rovesciato il risultato delle urne. Così andava dicendo il presidente in scadenza.

 

Gli Stati Uniti non sono il Guatemala

Ormai sappiamo che nulla di tutto questo è avvenuto e vengo qui alla seconda lezione che viene da queste pazze elezioni americane, che resteranno negli annali della storia politica di quel paese.

Gli Stati uniti non sono il Guatemala dove un presidente diceva: “Votate pure, ma se non scegliete me chiederò all’esercito di scendere per le strade e garantire, con la forza delle armi, la mia successione a me stesso”. L’esercito americano non ha mai interferito con la vita politica interna. I fan di Trump continuano a parlare di brogli come il loro leader, ma non vi sono stati scontri significativi e praticamente alcuna violenza.

Le Corti di giustizia invase da richieste fantasiose di annullamento dei risultati, o di blocco dello scrutinio dei voti giunti per corrispondenza – numerosissimi questa tornata a causa del coronavirus – hanno confermato i risultati delle elezioni, in perfetto rispetto della loro neutralità politica e dei principi del diritto. Soprattutto hanno fatto vincere la democrazia le schiere di scrutatori che per giorni e settimane hanno contato, ricontato e verificato indefessamente, durante l’infuriare della pandemia e la tempesta di menzogne provenienti dalla Casa Bianca, i milioni di schede che sistemi arcaici e talvolta strampalati di voto imponevano.

 

Gli scrutatori americani: quasi eroi

Questi cittadini americani, che fanno pensare al personaggio della Giornata di uno scrutatore di Italio Calvino, sono i numerosissimi piccoli eroi di questo tentativo fallito di rovesciare il tavolo della democrazia elettorale. Quello dove, come ha detto il segretario di stato della Georgia, repubblicano onesto, The numbers do not lie.

La lezione è che nonostante le pecche di una costituzione troppo vecchia e inemendabile, che fa temere peraltro difficoltà future a causa del bicameralismo “perfetto” e delle difficoltà per il Presidente di portare avanti il suo programma a causa di un Senato che avrà possibilmente una maggioranza Repubblicana e ostile, nonostante tutto questo la cultura civica della democrazia, quella per cui chi perde deve lasciare il posto a chi vince le elezioni, ha vinto a sua volta. Grazie alla serietà delle corti e alla virtù civile degli scrutatori che hanno difeso la regolarità del voto. Ma anche, bisogna riconoscerglielo, alla moderazione e al civismo ancora una volta di Joe Biden. Che ha attraversato con calma il mare agitato della transizione, mentre il perdente ha portato al più alto grado ciò che sa fare in modo fantastico e spudorato: mentire.

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