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Dopo l’epidemia, scegliamo sempre la società aperta

Alfonso Pascale lunedì 18 Maggio 2020
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di Alfonso Pascale

 

Chi si è rivelato più capace di governare la pandemia, i regimi democratici o quelli autoritari? Questa è una delle domande che si è posto Sergio Fabbrini nel suo consueto editoriale sul Sole 24 Ore.

Ecco la sua risposta: “È indubbio che i regimi autoritari (come la Cina) abbiano dimostrato una scarsa efficacia nella prevenzione e gestione dell’emergenza pandemica. Sistemi decisionali verticalizzati impediscono la circolazione delle informazioni, il confronto all’interno del gruppo decisionale, la verifica critica dei risultati prodotti dalle decisioni prese. In Cina, le informazioni sul virus hanno faticato ad arrivare ai decisori. Quando sono arrivate, questi ultimi hanno cercato di nasconderle. Quando non è stato più possibile farlo, era ormai troppo tardi per contrastare la pandemia. A causa dell’auto-referenzialità del regime, le informazioni sulla pandemia hanno tardato ad arrivare ai governanti degli altri Paesi, un ritardo che peraltro l’Organizzazione mondiale della sanità non ha contrastato. Non vi sono evidenze per sostenere (come ha sostenuto Donald Trump) che la Cina abbia deliberatamente creato e diffuso il Covid-19, ma vi sono evidenze per affermare che la Cina non abbia saputo gestire la pandemia per la natura del suo regime decisionale. Eppure, c’è chi vorrebbe imitare quel modello, non solo in Ungheria o in Polonia”.

Se noi dovessimo rinunciare alla democrazia, contribuiremmo a cambiare totalmente la struttura del mondo. L’effetto sarebbe quello di rendere dominanti gli Stati usciti dalla tragica esperienza del comunismo reale e che oggi rappresentano, in forme anche diverse, una nuova forma internazionale di dispotismo.

Biagio de Giovanni non ha remore nel dire che Cina e Russia costituiscono “la vera destra del mondo globale, nata dalla sinistra quando diventa estrema”. E un Occidente diviso e perfino contrapposto al proprio interno, non avrà una vera capacità di resistere di fronte alla nuova egemonia che si disegna. Di qui la straordinaria importanza delle elezioni americane.

Quale cultura può resistere a questo stato di cose? In un mondo dove dominano economicismo e finanze più un dispotismo di tipo nuovo, posato su una immane capacità produttiva e volontà di dominio, quale cultura può fronteggiare questo nuovo ordine? Una nuova cultura della sinistra che si oppone al dispotismo, sorretto da una potenziale egemonia globale, può dunque diventare utile. Non si tratta di opporre ostracismi alla Cina e alla Russia, ma misura e cultura nel rapporto necessario. Tra società aperta e società chiusa, la sinistra dovrebbe fare una netta scelta di campo per la prima. E per restare fedele alla sua vocazione all’eguaglianza, in un mondo che vede nascere nuove disparità e ingiustizie, la sinistra dovrebbe farsi carico di ridare forza politica e sociale a quei processi di costituzionalizzazione sovranazionale, rimasti i soli capaci di nuova eguaglianza, ma oggi presi nella morsa del populismo.

Ha scritto Jürgen Habermas: “Mentre lo stato di diritto e lo stato sociale si possono garantire, in linea di principio, anche senza democrazia, i diritti di partecipazione politica, i quali fondano la cittadinanza politica attiva, ossia l’esercizio pubblico dell’autonomia, per estendersi oltre gli Stati hanno necessariamente bisogno di un ordinamento democratico sovranazionale”. Il cittadino potrà esercitare la propria sovranità nel proprio Stato e in una dimensione sovranazionale solo se la cittadinanza politica attiva è in grado di esprimersi in una democrazia oltre lo Stato.

Non si tratta di porsi l’obiettivo utopico di realizzare la “repubblica mondiale” o una qualche forma di stato sovranazionale. Sono sufficienti architetture procedurali che permettano al cittadino di partecipare alla scelta degli obiettivi e all’individuazione e realizzazione degli interventi con essi coerenti. Al momento tali architetture sono molto deficitarie dal punto di vista democratico. L’entità sovranazionale più consolidata, l’Unione Europea, dovrà porre mano alla definizione democratica della propria governance. In base all’art. 48 del Trattato sull’UE, il Parlamento Europeo dovrà aprire il Semestre Europeo Costituente e predisporre un progetto di revisione del Trattato da negoziare con gli Stati membri. Il progressivo rafforzamento delle architetture istituzionali sovranazionali è la sfida che i cittadini consapevoli dovranno affrontare se vorranno superare la propria condizione di “sudditi” o “clienti” di poteri che sfuggono al controllo democratico.

Una Unione Europea con una governance effettivamente democratica è la condizione perché essa possa agire come attore globale. L’UE deve avvertire una responsabilità particolare nel contribuire a inquadrare una risposta globale attraverso il multilateralismo e un ordine internazionale basato sulle regole, insieme ai suoi partner nelle Nazioni Unite, nell’Organizzazione Mondiale della Sanità, nell’Organizzazione Mondiale del Commercio, nel G20 e nel G7. In questo contesto, è di primaria importanza ristabilire i flussi commerciali e le rotte di approvvigionamento, bloccati a causa dell’emergenza “covidica”. Nello stesso tempo, l’Unione dovrà fornire assistenza ai Paesi bisognosi. Particolare attenzione dovrà essere dedicata al vicinato immediato dell’Unione. Un forte partenariato dovrà essere sviluppato con l’Africa. L’Unione dovrà contribuire a consolidare, nel breve termine, la salvaguardia della salute delle popolazioni africane e investire, nel lungo termine, in infrastrutture e sviluppo. Altri attori pubblici e privati vanno stimolati a fare altrettanto.

Nei prossimi mesi sarà dunque necessario giocare una difficile partita su molti fronti. Ma forse proprio la tragica situazione che ci attende potrà stimolare nuove classi dirigenti dell’Occidente, da riunire e rivisitare, e permetterci di elaborare inediti strumenti di governo della vita comune, ridando significato a democrazie che si vanno inaridendo.

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