di Alessandro Maran
Archiviata la visita di Xi e la firma del Memorandum d’intesa fra Italia e Cina (la pietra dello scandalo che ha portato nelle scorse settimane Roma al centro del dibattito internazionale) è forse il caso di tornare sul tema della collocazione internazionale dell’Italia ai tempi del governo del cambiamento.
Il futuro è legato alla connettività
Una volta, si sa, «la geografia era destino». Il futuro, cioè, era già scritto, determinato dalle condizioni ambientali e territoriali. Ora, invece, come ha spiegato Parag Khanna, esperto di relazioni internazionali e autore del best-seller «Connectography. Mapping the Future of Global Civilization», grazie ai trasporti, alle comunicazioni e alle infrastrutture energetiche globali (autostrade, ferrovie, aeroporti, pipeline, reti elettriche, connessioni Internet e tanto altro), il futuro è legato alla «connettività».
Nel mondo di oggi, insomma, quel che davvero conta sono i flussi (di finanza, tecnologia, conoscenza e talento) che passano attraverso i paesi e le comunità (e quanto saremo istruiti e formati per approfittarne). Al punto che, scrive Khanna, «la competizione per la connettività sarà la corsa agli armamenti del XXI secolo». In altre parole, ci sono possibilità che si possono cogliere solo partecipando in un ampio raggio di relazioni e di flussi. E l’Italia resta uno dei terminali più significativi della proiezione cinese verso la regione euro-mediterranea, un orizzonte strategico per Pechino sia in chiave politica, sia in termini economico-commerciali e di sicurezza (anzitutto energetica), anche alla luce degli aggiustamenti della politica commerciale americana in senso protezionista.
I rapporti con la Cina
Messe così le cose, sarebbe del tutto ragionevole completare la Tav e sarebbe altrettanto ragionevole fare affari con la Cina. Come fanno, meglio di noi, Francia e Germania, senza bisogno di firmare nessun Memorandum e senza mettere in dubbio la loro collocazione atlantica con un gigantesco spot pubblicitario per la potenza cinese.
Non è un mistero per nessuno che mettersi contro gli americani portando avanti, con un accordo politico che di commerciale ha ben poco, ipotesi di collaborazione con la Cina in settori ad alto rischio strategico (che non sono solo le infrastrutture digitali in prospettiva del 5G, ma tutte le infrastrutture di trasporto e logistica e le reti di distribuzione dell’energia in cui la Cina chiede una maggior presenza) può incrinare un rapporto che è stato (ed è) fondamentale per la libertà e lo sviluppo dell’Italia; e scavalcare l’Europa e trascurare le intese con altri stati europei nella politica commerciale con quello che la Ue ha definito un «rivale sistemico», può aggravare il nostro isolamento e influire negativamente sullo sviluppo del paese.
Specie se si considera che l’Europa ha cominciato a ripensare radicalmente le sue politiche nei confronti della Cina (il cambiamento è così importante che anche analisti navigati lo hanno definito una “rivoluzione”) e che il perseguimento della Belt and Road Initiative è stato inserito nella Costituzione cinese ed è oggi un obiettivo strategico di stato, non una mera iniziativa economica e commerciale.
Il governo italiano gioca da libero battitore
Ma è da un pezzo che il governo italiano gioca da libero battitore. Continua la guerra con la Francia (dai migranti alla Libia e alla politica industriale) e mentre Francia e Germania hanno sottoscritto il trattato di cooperazione bilaterale di Aquisgrana e avviano un mini-parlamento comune, noi prendiamo le distanze dall’Europa e ci siamo posti sulla sponda opposta di questo processo, vagheggiando accordi con quanti, a Est, di Europa politica non vogliono neppure sentire parlare; il ministro della Difesa dalla sera alla mattina ha annunciato il ritiro dell’Italia dall’Afghanistan e sul tema degli F-35 non facciamo che traccheggiare; sul Venezuela, l’Italia ha preso posizione senza prendere posizione ed è l’unica potenza Ue ad non essersi allineata con la posizione europea e con gli Stati Uniti, il flirt con i russi è diventato una relazione stabile, ecc.
Abbiamo, insomma, una politica estera «affidata al libero arbitrio del ministro dell’Interno e di quello del Lavoro» che, come ha scritto Franco Venturini sul Corriere della Sera, «non è mai stata tanto contraddittoria, tanto subordinata a interessi interni di piccolo cabotaggio, tanto caotica, tanto priva di strategia coerente»; e cresce, ovviamente, la diffidenza nei confronti dell’Italia da parte della comunità internazionale.
Col rischio, in questo caso, come ha spiegato il direttore di Limes Lucio Caracciolo, di perdere su entrambi i fronti, «non ottenendo niente di importante dalla Cina mentre gli Stati Uniti si vendicheranno perché ci siamo avvicinati troppo a Pechino». E forse non è un caso che in Libia il generale Haftar abbia deciso di premere sull’acceleratore.
L’illusione che i cinesi comprino il debito italiano
È il Bar Sport al governo, si dirà. Quello in cui passa il carabiniere, lo sparaballe, il professore, il «tecnico» che declina la formazione della nazionale, il ragioniere innamorato della cassiera, il ragazzo tuttofare; e dove tutti discettano di tutto spensieratamente come se fossero formazioni di squadre di calcio.
C’è, inoltre, l’illusione che i cinesi comprino il debito italiano: la spesa è fuori controllo e i conti non tornano. Dunque, il governo gialloverde spera che in caso di shock finanziario Pechino metta mano al portafoglio e ci tolga dai guai. In fondo, dalle parti di Palazzo Chigi pensano che sarà la Cina a trionfare come potenza globale nei prossimi dieci anni.
Ma proprio perché, come ha detto Ferdinando Nelli Feroci, presidente dell’Istituto Affari Internazionali, con l’adesione alla Bri, l’Italia ha «messo il dito in un ingranaggio molto delicato, nel mezzo di una competizione globale a tutto campo tra Usa e Cina», non sarebbe male essere consapevoli della natura dello scontro che si sta configurando a livello internazionale.
La sfida tecnologica tra Usa e Cina
L’ordine mondiale multipolare sta per finire, ha scritto di recente Gideon Rachman sul Financial Times, e sarà rimpiazzato da due blocchi contrapposti guidati dalla Cina e dagli Stati Uniti, ma, diversamente dai tempi della Guerra Fredda, questa volta a dividerci è la tecnologia: invece di scegliere da che parte stare tra l’alleanza militare americana e quella sovietica, il mondo è costretto a scegliere tra un accordo tecnologico con gli Stati Uniti e uno con la Cina.
Mentre gli Stati Uniti spronano gli alleati ad escludere Huawei, la Cina ha già messo al bando i giganti tecnologici americani Google e Facebook e due diversi sistemi tecnologici si stanno sviluppando in parallelo. La Cina è già in vantaggio nelle esportazioni high-tech (secondo i dati della Banca mondiale ha sorpassato gli Stati Uniti nel 2004), ma il nuovo discrimine va ben oltre la vendita di telefoni cellulari. Riguarda i dati e le comunicazioni, che «sono fondamentali per tutte le forme di business e per le attività militari». Il che significa che questo nuovo spartiacque potrebbe propagarsi in altre aree e minacciare «la stessa globalizzazione»; e proprio il braccio di ferro sull’Italia, lontanissima dal Mar cinese meridionale, evidenzia che la rivalità tra le due potenze è ora globale ed esplicita. E veniamo al punto. Al governo italiano l’Occidente proprio non piace.
Al governo italiano l’Occidente non piace
L’anti-americanismo, l’anti-europeismo, la simpatia per Russia e Cina, il sostegno per ogni dittatura in conflitto con l’Occidente (dall’Iran al Venezuela), l’anti-semitismo di alcuni esponenti, sono tratti costitutivi del M5s, tanto quanto l’anticapitalismo, il rifiuto della globalizzazione, l’ostilità per gli scambi commerciali ed il mercato tout court; tanto quanto l’ostilità per la democrazia parlamentare e il favore per quella plebiscitaria, l’odio per le classi dirigenti, i banchieri, gli eurocrati o il pregiudizio antiscientifico, le sirene, i guaritori, i complotti degli Ufo.
In altre parole, per i populisti italiani, la Russia è un modello politico e la Cina un modello economico.
E c’è chi pensa addirittura che la Cina ci libererà (finalmente) dagli Stati Uniti. Proprio per questo è venuto il momento di chiedersi dove stiamo andando. Anche perché l’ultima volta che l’Italia ha puntato sul cavallo sbagliato il paese è stato ridotto ad un cumulo di macerie. Niente paura, si dice, l’abbraccio con il gigante asiatico non ha convinto per niente la Lega (Salvini si è tenuto alla larga dalla capitale e non ha partecipato agli incontri con i cinesi ) che addirittura si è riscoperta «atlantica». Sarà, ma bisogna fare attenzione a non confondere l’internazionale populista di Bannon con l’Alleanza Atlantica, che rimane l’unico «produttore di sicurezza» seriamente esistente.
L’ordine liberale mondiale
L’ordine liberale mondiale guidato dall’America non è, e non è mai stato, un «fenomeno naturale».
Come ricorda Robert Kagan, gli ultimi settant’anni di commercio relativamente libero, rispetto crescente per i diritti individuali e cooperazione relativamente pacifica fra le nazioni (gli elementi centrali dell’ordine liberale) sono stati «una grande anomalia storica», una «deviazione».
Di fronte al disordine degli ultimi anni (dal declino delle democrazie alla crescente competizione geopolitica), gli americani (e i sovranisti di ogni colore) sembrano sempre più propensi a badare a se stessi o a ritirarsi. Ma il ritiro dell’America di Trump e l’unilateralismo egoista di chi è convinto di bastare a se stesso, sono la peggiore risposta possibile a quel che accade; una risposta basata su una interpretazione sbagliata (e pericolosa) del mondo.
La libertà, la prosperità e la pace diffusa di cui ha goduto il mondo per decenni sono minacciate oggi dalle forze naturali ed eterne della storia che, come una giungla, cercano costantemente di recuperare terreno. Va da sé che la nostra epoca non si è fatta mancare orrori, genocidi e oppressioni. Ma dal punto di vista storico (e specialmente dalle nostre parti) è stata una sorta paradiso. Per mantenerlo (e migliorarlo), dobbiamo darci da fare.
Quelli che dicono che bisogna accettare il mondo così com’è, non hanno idea di quanto il mondo possa essere pericoloso e quanto velocemente le cose possano andare in pezzi. E sostanzialmente equivocano il ruolo essenziale che ha giocato per decenni l’America (con l’Unione europea e le istituzioni internazionali) nell’impedire che il mondo ritorni al suo passato violento e sanguinoso. Basterebbe pensare alla graduale trasformazione della Germania e del Giappone, che sono state due potenze militari, ambiziose e autocratiche e sono diventate due potenze economiche, pacifiche e democratiche: una rivoluzione negli affari internazionali del dopoguerra.
I gemelli del populismo italiano se ne fregano
Il guaio è che entrambi i gemelli del populismo italiano se ne fregano, si credono furbi e mai e poi mai giudicherebbero conveniente consentire (come stabilisce la Costituzione) “alle limitazioni di sovranità necessarie a un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni e la promozione delle organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”. I leader nazionalisti non collaborano, è risaputo; e poi al Bar Sport non vogliono la pace, quel che vogliono è essere lasciati in pace. Ma come pare abbia detto Trotsky, «Tu puoi anche non mostrare alcun interesse per la dimensione internazionale (o la guerra, la storia, ecc.), ma prima o poi questa si interesserà di te».
Già senatore del Partito democratico, membro della Commissione Esteri e della Commissione Politiche Ue, fa parte della presidenza di Libertàeguale. Parlamentare dal 2001 al 2018, è stato segretario regionale dei Ds del Friuli Venezia Giulia.