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Tra astensionismo e voglia di uomo forte

Giovanni Cominelli sabato 2 Febbraio 2019
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di Giovanni Cominelli

 

Conte a Davos. Il Re Travicello si è presentato con la maschera di Lincoln, citando il suo discorso di Gettysburg del 19 novembre 1863: “… un governo del popolo, dal popolo, per il popolo…”.

La non-partecipazione al voto nelle elezioni suppletive di Cagliari – ha votato solo il 15,56% degli aventi diritto – è solo un’eccezione isolana o è il trend delle elezioni europee?

 

La politica irrilevante e il sogno della piccola Italia autarchica

Di certo si tratta di un segnale inquietante. La politica è ormai percepita come un’attività tra l’inutile e il dannoso e come il luogo dell’impotenza e dell’insignificanza. Non meraviglia che insorgano, apparentemente agli antipodi dell’astensionismo, domande di uomo forte.

Ambedue gli atteggiamenti hanno lo stesso punto di partenza: la politica è irrilevante. Il cittadino si sente sequestrato dentro una rete di interdipendenze nazionali e globali, di cui non riesce a venire a capo da solo. Perde sovranità sulla propria vita. Da sempre ha provato a difenderla con la politica, delegando ad altri, espressamente “deputati”, l’impresa di sciogliere i nodi più ingarbugliati, al fine di progettare il proprio futuro. E’ la famosa democrazia rappresentativa. Nodi pubblici, si intende, quelli da cui dipendono i destini individuali: sviluppo economico-sociale, lavoro, welfare, ambiente, sicurezza. Ci ha provato con la Prima repubblica. Fallita la quale, ne ha costruito una “Seconda”.

Un giorno si rivolgeva al forno del centro-destra, un altro a quello del centro-sinistra, da ultimo ad un “podestà esterno”. Dal 2013 ha tentato una soluzione ibrida: un pezzo di centro-destra e un pezzo di centro-sinistra. Insoddisfacente.

A questo punto “il cittadino di Voghera” si è chiesto: “E adesso pover’uomo”? E’ anche titolo del famoso romanzo del 1932 – “Kleiner Mann, was nun?” – nel quale Hans Fallada descrive, in un periodo di convulsioni totalitarie, la disperazione del povero protagonista, Joannes Pinneberg. E perciò ha deciso di spingere sul binario morto il centro-destra e il centro-sinistra, investendo le proprie speranze su forze politiche che gli promettevano e promettono “il sol dell’avvenire” di una ritrovata sovranità personale. Sarebbe la Terza repubblica.

Il M5S e la Lega gli hanno spiegato che per recuperare la sovranità personale occorre ridisegnare una nuova sovranità nazionale. In parole povere: allentare o rompere i legami con l’Europa e con l’Euro, ritirarsi dal Mediterraneo, mollare la Libia al suo tragico destino, fare a cazzotti con Macron e con la Merkel, uscire dalla Nato, appoggiarsi a Putin… Insomma: tornare alla piccola Italia autarchica, senza – si intende – le ambizioni imperiali degli anni ’30 del ‘900. Anche l’eroica parola d’ordine “oro alla Patria!” è stata abbandonata a favore di quella più prosaica: “BOT e BTP alla Patria”.

Solo che questa Terza repubblica di fantocci non pare destinata a durare molto. Forse toccherà il picco del consenso con le elezioni europee, ma già si avvertono i primi schricchiolii, poi la curva scenderà rapidamente. Perché la realtà del Paese non è ciò che raccontano i gialloverdi. Il Paese non è prigioniero di una rete di relazioni economiche, politiche e istituzionali internazionali; semplicemente ne è “tenuto su”, anzi ne costituisce un ganglio fondamentale in Europa e nel Mediterraneo. Liberarsene vuol dire sprofondare. Vedi Brexit. Non tutto è “tenuto su”: solo il Nord del Paese. Ma tanto basta perché il Sud non riesca, per ora, a trascinarlo in basso. Per ora e finché dura. Dunque, il Paese immaginario sta andando a sbattere la faccia contro il Paese reale. Sta arrivando il vento della delusione, tanto più freddo quanto più era caldo quello dell’illusione.

 

La Politica ha perso la fiducia dei cittadini. Le ragioni

Ma questo non implicherà affatto che “il pover’uomo” ritorni all’ovile del centro-sinistra o del centro-destra, benchè le politiche di questi due poli siano grosso modo più coerenti con il Paese reale. Perché ciò che è in crisi radicale non é solo la “Policy”, ma la “Politics”. E’ la Politica in quanto tale che ha perso la fiducia dei cittadini.

Le ragioni sono due. La prima è che “le politiche” sono sempre dure e in parte divisive, quanto più, paradossalmente, pretendono di riformare. Le riforme offendono interessi e corporazioni. Hanno più successo popolare le politiche facili e distributive, ancorché finanziate a debito, a spese del futuro.

La seconda è che la Politica – intesa come istituzioni e come partiti – ha sempre la stessa struttura immobile e chiusa, nonostante i passaggi tra le varie sedicenti “Nuove repubbliche”. Sono cambiati nomi e sigle, partiti di massa o partiti personali, movimenti o sette carismatiche e algoritmiche, ma, alla fine, i cittadini sono sempre rimasti sulla soglia della decisione. E perciò anche dell’assunzione di responsabilità personale. La contrapposizione tra “élites e popolo” – che Sabino Cassese traduce più rigorosamente “tra governanti e governati” – trova il suo fondamento materiale nel distacco reale tra politica/governo e cittadini.

E’ questa la causa della “rottura sentimentale” con il popolo, di cui ci si lamenta nel PD. I cittadini si sentono inutili, quando mettono il naso nell’arena pubblica. Più che dell’impoverimento delle periferie, in questo Paese ricco e opulento dell’Europa i cittadini soffrono della propria irrilevanza pubblica. Non è una condizione recente. Fin dalla Costituzione del ’48, nonostante la retorica democratica partecipativa, ai cittadini elettori era riservato solo un ruolo di massa di consenso e di manovra. Potevano associarsi nei partiti, ancora oggi non regolati dalla legge. Nel Parlamento contavano e contano solo i partiti, organizzati in modo oligarchico, a centralismo democratico o correntizio o carismatico. Sono impenetrabili scatole nere per i cittadini.

L’istituzione-Governo era ed è sempre rimasta solo un luogo di compensazione e di mediazione paralizzata degli interessi, non certo “di governo”. Le decisioni le prendevano e le prendono i segretari di partito. Mentre oggi si esalta la democrazia diretta, mai come oggi è il segretario di Partito che decide, mentre il Presidente del Consiglio porta la corona del Re Travicello, che il Giusti descrive nella famosa poesia “ Là là per la reggia, dal vento portato, tentenna, galleggia, e mai dello Stato non pesca nel fondo”. La crisi dei partiti di massa è dovuta all’incapacità di far partecipare i cittadini più direttamente alla vita politica, accentuata in proporzione della crescita della coscienza individuale pubblica. Questa si è modificata, i partiti no.

 

Conte, Re Travicello e il rischio dell’“uomo solo al comando”

Né ce la si può cavare con l’anatema del “populismo”, che è invece la reazione disperata all’impotenza, di cui i cittadini-elettori si sentono prigionieri. Disperata e ultima. Perché dopo il populismo si aprono solo due strade: o un astensionismo crescente o un movimento di massa che chiede “un uomo solo al comando”. Al momento, ambedue le tendenze sono evidenti e intrecciate.

Resta una terza strada, quella di una riforma radicale della politica: delle istituzioni e dei partiti.  Se la natura rappresentativa della democrazia italiana e i suoi meccanismi di partecipazione e di decisione sono la posta in gioco decisiva dei prossimi mesi, è qui che le attuali opposizioni si devono collocare con proposte precise di “institution bulding”. E’ questa la riconnessione sentimentale da costruire. Dal punto di vista della sinistra significa rompere radicalmente con la cultura politica della Prima repubblica. La forma più alta e più responsabilizzante di partecipazione è la scelta diretta del governo. Non pare, tuttavia, che il PD sia propenso a camminare su questa strada. Allora ai cittadini non resteranno che le altre due strade.

Nell’attesa, il Re Travicello si è presentato a Davos con la maschera di Lincoln, citando il suo discorso di Gettysburg del 19 novembre 1863: “… un governo del popolo, dal popolo, per il popolo…”.

Non basterà una risata a seppellirlo politicamente.

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