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Italia, “democrazia imperfetta”. Le ragioni profonde della crisi

Giovanni Cominelli sabato 10 Agosto 2019
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di Giovanni Cominelli

 

Siamo in “recessione democratica globale”? Sì, almeno se diamo retta a due recenti “misurazioni di democrazia”, condotte dal settimanale “The Economist” e da “FreedomHouse”, organizzazione non governativa finanziata dalla Casa Bianca, fondata da Eleanor Roosevelt nel 1941 per promuovere la democrazia nel mondo.

 

Democrazie complete, imperfette, regimi ibridi, regimi autoritari

L’”Economist Intelligence Unit Index of Democracy” esamina lo stato della democrazia in 167 Paesi.

Facendoli passare dentro quattro filtri – “L’equità e la libertà delle elezioni”; “La sicurezza degli elettori”; “L’influenza di poteri o governi stranieri”; “La capacità dei funzionari di attuare modifiche” – essi risultano classificati in “Democrazie complete”, “Democrazie imperfette”, “Regimi ibridi” e “Regimi autoritari”.

Secondo l’indagine del 2018, la Norvegia ottiene il punteggio più alto, 9,87 su una scala da 0 a 10, la Corea del Nord il più basso con 1,08. L’Italia, con il suo 7,71 si colloca al 33º posto, tra le democrazia imperfette.

Secondo il Rapporto di Freedom House, solo il 45% dei Paesi possono essere considerati liberi, il 30% parzialmente liberi e il 25% non liberi, caratterizzati da guerre civili, dittature, governi corrotti o regimi militari. Cina e Russia hanno intensificato negli ultimi anni il controllo interno, alimentando repressioni sempre più forti e pervasive, dai tribunali politicizzati a un costante rifiuto del dissenso, dall’eliminazione degli oppositori all’oscuramento di giornali e portali online. Se con Obama, almeno a parole, era ancora vivo il desiderio di alimentare un mondo più libero e solidale, con Trump questa visione è stata esplicitamente accantonata.

 

La democrazia in crisi non è colpa di Puntin, di Trump o di Salvini

Si può ironizzare su queste indagini tipiche del mondo anglo-sassone, che tendono a definire degli Index per ogni fenomeno pubblico, ma anche il più distratto osservatore non può evitare di vedere ciò che gli passa sotto il naso: il nuovo spirito illiberale del tempo, del quale un sottoprodotto certo è il disinteresse per la pratica, le regole e i valori della democrazia, il venir meno di quell’etica pubblica e di quelle tavole di valori che stanno alle spalle degli assetti giuridici e istituzionali della democrazia liberale.

Questo vento che soffia dal cuore delle società occidentali non è una produzione artificiale della politica di Trump o di Putin o di Marine Le Pen o, si parva licet, di Salvini né di pensatori alla Bannon o alla Dugin: viene dal profondo dell’esperienza esistenziale degli individui. La politica può solo decidere di fare il surf su quella corrente e la filosofia di giustificare quella politica.

Donde nascono oggi l’odio, il disprezzo dell’altro, la volgarità, l’intolleranza, se non, talora, dalle stesse persone che fino a ieri praticavano relazioni sociali del tutto opposte? Certamente dall’insicurezza identitaria, che a sua volta è la risultante di negative condizioni economico-sociali e culturali. Le promesse moderne e liberali di un progresso continuo, di un migliorismo permanente, di un’assoluta sovranità dell’individuo sulle proprie condizioni, grazie al benessere economico e alla sperimentazione di una libertà senza vincoli, hanno urtato contro gli scogli del Terzo millennio.

Gli individui si sono liberati del trinomio Dio-Patria-Famiglia per scoprire che non esiste nessun fondamento assoluto né per il singolo né per le società. La padronanza del proprio destino è divenuta solo una fragile corazza di cartapesta. Gli individui in Occidente hanno riscoperto di nuovo, dopo il lungo ciclo del secondo dopoguerra, una condizione esistenziale di incertezza e di rischio, già ben descritta dai filosofi tra le due guerre. Stanno sperimentando l’ossimoro della contingenza assoluta.

 

L’”Altro” torna a fare paura

Le cause variano da Paese a Paese: il lento declino negli Usa, la lunga stagnazione dello sviluppo e l’immigrazione disgovernata in Italia, il terrorismo islamico in Francia e in Germania, la lenta, ma inesorabile mutazione culturale e demografica dell’Europa, a causa dell’inverno demografico, le pulsioni identitarie degli Stati dell’Est europeo e dei Balcani, nati dalle feroci pulizie etniche reciproche e, sullo sfondo, quale causa ed effetto, il disordine multipolare mondiale. Così gli altri, l’Altro, tornano a fare paura: “a ciascuno secondo la sua capacità di minaccia”. Stare in società fa paura. Torna la retorica sartriana: “L’enfer c’est les autres”.

I pruriti esistenzialistici di anime belle e tormentate della Rive gauche sono emigrati dai romanzi, dai testi teatrali e filosofici all’intero corpo sociale. Il loro nome sintetico è “nichilismo”, per il quale “l’Essere è soltanto il prodotto di una momentanea distrazione del Nulla”. Questa condizione esistenziale produce Politica, è politica, perché modifica il modo di stare in società, la struttura delle relazioni. E, pertanto, plasma il sistema politico, le culture politiche, i partiti.

 

L’ Euroasiatismo gialloverde

La politica è socialmente e culturalmente ancorata, se fa i conti con questa esperienza delle persone. L’ancoraggio giallo-verde è, da questo punto di vista, molto solido, perché la cultura politica giallo-verde ha scelto di coltivare la paura delle persone, è la sua risorsa politico-elettorale. Alla quale fornisce un binario-risposta: quello dell’abbandono della democrazia liberale, sia nel senso dei valori etici costitutivi – nel caso di Salvini – sia, anche, nel senso dei suoi istituti storici – nel caso del M5S.

I fondamenti culturali dei due partiti, non casualmente filorussi, che ci governano sono forniti dal filosofo, non casualmente russo, Alexander Gelevic Dugin, cui si ispira lo stesso Vladimir Putin. I diritti fondamentali della democrazia liberale sono “un prodotto degenerativo del mondo anglo-sassone”. Dopo il Liberalismo, centrato sull’individuo; dopo il Comunismo, fondato sulla classe; dopo il Fascismo, fondato sulla nazione e sulla razza, Dugin propone la “Quarta Teoria Politica”. Si autodefinisce “populismo integrale” o, anche “ la metafisica del populismo”: “Il populismo è una reazione esistenziale dei popoli, che evidentemente non sono morti, come vorrebbero i liberali, i mondialisti e i globalisti”. Né di destra, né di sinistra, con simpatie verso la giustizia sociale e l’ordine morale. Dugin afferma di riattingere al concetto heideggeriano di Dasein, interpretato come popolo. Heidegger, ma anche Julius Evola, il pensatore italiano di destra razzista e fascista-nazista, sono i punti espliciti di riferimento.

Quali le ricadute di politica e di geopolitica, secondo Dugin? E’ il Neo-Euroasiatismo – figlio dell’Euroasiatismo degli anni ’20 – cioè: la Russia al centro di un sistema geopolitico di Stati, che comprende gli Stati europei, il Caucaso, il Medioriente, fino a Vladivostock. E l’Iran? E’ la prima realizzazione della Quarta teoria politica nel mondo islamico. E il populismo italiano? Dugin lo trova coerente con l’intera impostazione filosofica e geopolitica neo-euroasiatista.
Quel che è certo è che oggi circa la metà degli elettori votanti italiani la condivide.

 

I difensori della democrazia devono andare controcorrente

Se questa è la sfida, chi difende i diritti fondamentali della persona umana e l’assetto istituzionale democratico-liberale si trova a dover andare controcorrente. E a dover costruire, a sua volta, i fondamenti di filosofia e di geopolitica del personalismo, che è altra cosa dall’individualismo radicale liberale, quale ha pervaso la sinistra, come a suo tempo già denunciò Augusto Del Noce.

La difesa delle istituzioni della democrazia esige delle retrovie attrezzate sul piano culturale e delle proposte di politiche di solidarietà che non degenerino in politiche corporative. Ad oggi, questa identità “filosofica” di un’opposizione liberale e personalista non si vede. Sì, i Due litigano in continuazione, ma il cemento ideologico che li tiene insieme è ancora più forte di quello che li tiene incollati alle poltrone. E, infatti, la maggioranza dell’elettorato sta con loro.

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