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di Vittorio Ferla

 

Qualcosa sta cambiando. Le elezioni europee del prossimo 26 maggio sembrano segnate da una aspettativa comune: quella di un’Europa che protegge. Il primo a usare questa frase è stato Emmanuel Macron: une Europe qui protège. Il presidente francese ha proclamato per la prima volta il nuovo verbo dell’europeismo con il discorso della Sorbona del settembre 2017. In quell’occasione, per la prima volta da anni, abbiamo sentito risuonare un progetto visionario per l’Europa, ormai associata nella percezione dei cittadini alle fredde burocrazie di Bruxelles. Nonostante la potenza di quel messaggio, non sembrano ancora manifesti i segni di una possibile svolta. Di recente, proprio perché in prossimità del voto, Macron è ritornato sul tema con una lettera aperta ai cittadini europei ispirata all’idea di un Rinascimento europeo. Ancora una volta il leader francese rilancia il tema dell’Europa protettrice. Che cosa questo significhi in pratica, se l’Europa può farcela e se questo è davvero desiderabile è molto chiaro sia nella lettera sulla Renaissance che – ancor più – nel discorso della Sorbona. Ma resta tuttora oggetto di discussione.

 

L’Europa dopo la caduta del Muro di Berlino

Ma facciamo un passo indietro. Che cosa è successo finora? La storia dell’Europa successiva alla Guerra Fredda può essere distinta in tre fasi (corrispondenti a tre decenni).

Nel primo decennio – dalla caduta del Muro di Berlino nel 1989 all’introduzione dell’Euro nel 1999 – l’Europa ha conosciuto una grande espansione istituzionale. Il periodo conseguente – il decennio che va dal 1999 al 2009 – è stato segnato dall’espansione territoriale con l’ingresso di 12 nuovi membri. Dopo il grande entusiasmo dell’avvio, appaiono oggi anche le contraddizioni di quel passaggio. In generale, contano le diverse velocità di sviluppo dei paesi membri (a partire – ma non solo – dalla frattura tra paesi nordici e paesi mediterranei). In particolare, l’ingresso dei paesi dell’Europa orientale ha avuto un impatto potente sulla coerenza del progetto europeo, anche in considerazione della scarsa dimestichezza di quei paesi con le istituzioni politiche ed economiche della democrazia liberale.

Ma con il 2009 comincia quella crisi profonda che ha dominato l’ultimo recente decennio. Tra i fattori della crisi: il disagio economico nell’area dell’Euro, i conflitti negli stati vicini all’Europa dall’Ucraina alla Siria, i flussi di migrazioni attraverso il Mediterraneo, la decisione del Regno Unito di uscire dall’Unione europea e, infine, il ripensamento dell’alleanza transatlantica da parte del nuovo presidente americano Donald Trump.

Quelli che un tempo apparivano come attori innocui o, addirittura, benigni dell’economia mondiale (come la Cina o le imprese tecnologiche della Silicon Valley) si sono trasformati in un pericolo. L’Europa, vittima del suo nanismo politico-militare e della mancanza di coordinamento nelle politiche dei paesi membri, appare fragile di fronte alle nuove sfide globali.

 

2016: il populismo vince nelle democrazie mature

Sono due – più di tutti gli altri – gli eventi che hanno sconvolto il cammino dell’Europa. Entrambi risalgono al 2016. Entrambi provengono dal cuore della democrazia liberale: il mondo anglosassone. Entrambi esprimono il potenziale distruttivo e sovversivo del nazionalpopulismo. Parliamo del referendum sulla Brexit nel Regno Unito e della vittoria di Donald Trump negli Usa. L’indipendentismo britannico ha dimostrato che l’Unione europea può diventare un progetto reversibile: ciò produce una forte scossa alle fondamenta della casa comune. La nuova presidenza Trump è solo apparentemente una vicenda esterna ai destini dell’Europa. L’isolazionismo trumpiano ha conseguenze rilevantissime: dal punto di vista economico, diventa protezionismo ostile alle imprese europee; dal punto di vista geopolitico, il disimpegno militare apre il tema della sicurezza dell’Europa, fino ad oggi garantita dal gigante a stelle e strisce.

Il risveglio dei leader europei

Se è vero che il 2016 è l’annus horribilis per la democrazia occidentale è anche vero, tuttavia, che ha avuto il merito di risvegliare dal sonno i leader europei. Improvvisamente i leader europei sembrano aver realizzato che l’Europa ha bisogno di difendersi. E nei tempi turbolenti che viviamo in che cosa si manifesta questa ‘difesa’? La parola chiave diventa: protezione. I cittadini chiedono maggiore protezione contro quella che percepiscono come una perdita di controllo sulle proprie vite e sulle proprie tasche, sul proprio progetto di famiglia e di crescita lavorativa, sul proprio destino nella società e nel mondo. La perdita di controllo è quella che ha mosso gli elettori britannici a preferire la Brexit e gli elettori americani a preferire il tornado Donald. Brexit e Trump rappresentano la vera svolta.

 

La sfida di Macron

Ecco perché Macron insiste sull’Europa che protegge. Attenzione però. La protezione è, ovviamente, un’arma a doppio taglio.

La ‘protezione’ nella versione di Salvini, Le Pen, Orban, Trump e via elencando è il ritorno alla difesa – culturale, etnica, economica – dei recinti domestici. In questo caso, la protezione è protezionismo. Macron sembra cogliere proprio questa sfida e ammonisce sulla vera posta in gioco delle elezioni del 26 maggio: da un lato, il ripiegamento nella trincea sovranista dove ciascun paese presume di affrontare problemi giganteschi con i miseri strumenti degli stati nazionali. Dall’altro, un modello aperto e federalista capace di affrontare i cambiamenti globali tramite la ricerca di soluzioni comuni. Il messaggio che il capo dello stato francese cerca di trasmettere ai cittadini dell’Ue – con una energia che appare a volte solitaria e disperata – è duplice: da un lato, il rifiuto dell’Europa non è un progetto; dall’altro, se l’Europa resta organizzata così non può più essere in grado di rispondere alle sfide politiche, economiche e sociali del XXI secolo: bisogna ricostruirla attorno ad alcune idee forti e reinventare un sogno europeo come accadde con il Rinascimento.

 

Le convergenze parallele di Pd e M5s

C’è poi un altro spazio di confronto: quello tra i programmi delle forze politiche. In Italia, è interessante notare la clamorosa convergenza degli ultimi giorni tra i programmi europei del Pd e del M5s: entrambi sembrano privilegiare soprattutto misure di carattere squisitamente assistenziale. Sul piano interno, queste convergenze potrebbero effettivamente preludere a occasioni di alleanza futura. Assai discutibili in verità, a meno che il Pd non rinunci definitivamente alla prospettiva di una sinistra di governo, progressista e riformista, ma immune alla malattia populista dello statalismo. Sul piano europeo, è certamente opportuno – anzi, necessario – spostare a livello comunitario – cioè federale – alcune misure come la tassazione delle multinazionali del web o l’indennità di disoccupazione in chiave anticiclica. E per far questo servirà certamente la costruzione di un bilancio dell’area dell’Euro (che, per inciso, i Cinquestelle hanno fin qui osteggiato, opponendosi ai progressi compiuti da Francia e Germania in tal senso). Ma pensare di trasformare l’Unione europea in un megastato sovranazionale capace di risolvere in un colpo solo l’atavica fame italiana di assistenzialismo appare un atto di ingenuo surrealismo. L’UE – diversamente da quanto appare dai suddetti programmi – può anche progressivamente allentare i lacci dell’austerità, ma non può certamente diventare la nuova gallina dalle uova d’oro, non possiamo costruire in Europa il nuovo regno del tassa e spendi, né si può scaricare sulla UE la riproduzione del ‘mostro’ del debito pubblico. Peraltro, se la logica degli statalisti italiani in cerca di sussidi fosse quella di chiedere alle istituzioni comunitarie di sostenere le nazioni ‘proletarie’, l’Italia non sarebbe sicuramente la prima tra queste.

 

La costruzione di un’agenda europea

Insomma, l’agenda delle riforme da fare in Europa è ben più complessa rispetto a quella concepita dai partiti della spesa italiani. Basti pensare al tema della difesa militare. Nel maggio 2017, di fronte al progressivo ritirarsi degli Usa dai tradizionali compiti di scudo militare, Angela Merkel spiegò che l’Europa non potrà più contare sugli altri paesi per garantire la propria sicurezza. Cresce, insomma, la consapevolezza che la sicurezza e la sovranità dell’Europa non sono un dato scontato. Gli elementi per una nuova agenda europea sono numerosi. Alcuni sono risalenti: una più forte sicurezza dei confini e la regolamentazione dei giganti americani del web. Altri sono più recenti: politiche di contenimento dell’offensiva economica della Cina e la necessità di maggior difesa a livello globale. Comunque la si guardi, l’Unione Europea sembra aver riscoperto il senso di una missione. Lo testimoniano, tra le altre cose, l’accordo di Meseberg sul bilancio dell’Eurozona e il manifesto franco-tedesco per politiche industriali; il rafforzamento delle leggi sul copyright online; le nuove risorse e i nuovi poteri per Frontex l’agenzia per il controllo dei confini.

C’è poi un altro dato rilevante. Nelle elezioni europee i partiti politici – perfino quelli italiani – non competono più sulla minaccia di lasciare l’Europa: la Brexit ha fatto capire che l’uscita crea molti più problemi di quelli che credeva di risolvere. Ma sul modo in cui l’Europa potrà svolgere il suo compito di protezione contro le turbolenze dell’economia globale ci sarà da lavorare.

L’Europa emerge dalla crisi di questi anni con la missione di tenere sotto controllo le spese, consolidare le sue posizioni e più di tutto proteggere se stessa e i suoi cittadini.

 

L’“Europa che protegge”

“L’Europa che protegge” immaginata da Macron potrebbe rendere se stessa più popolare nei confronti dei propri cittadini e più stabile rispetto alle turbolenze globali. Ma restano da sciogliere due nodi.

Il primo è che alcune forme di protezione possono danneggiare l’idea di società aperta che è la base della libertà e della prosperità europea. Per esempio, ‘colpire’ le aziende oggi vincenti per creare nuovi ‘campioni europei’ come propone la strategia industriale avanzata da Parigi e Berlino, non deve alla lunga mettere in dubbio il principio della competizione economica. Non solo per motivi ideali, ma pratici: nel lungo periodo il protezionismo renderebbe l’Europa più povera.

Il secondo problema risiede nella lacuna di poteri di coordinamento comunitario, assolutamente necessari per affrontare tutte le sfide attuali. In questo momento, infatti, diversi fattori vanno in direzione contraria: l’emersione dei paesi sovranisti, lo stallo dell’alleanza franco-tedesca, il disimpegno del Regno Unito, l’autoesclusione dell’Italia, la frammentazione delle politiche europee. L’Unione europea così ampia e diversificata si mostra più difficile da gestire. Per affrontare questioni gigantesche come i rapporti con Usa e Cina è sempre più necessario sviluppare una comune politica estera. Senza superare queste barriere strutturali con una profonda riforma delle istituzioni comunitarie, i leader europei non saranno capaci di dare ai loro cittadini la protezione che promettono. Con il rischio di aprire un altro periodo di crisi.

Ecco perché serve sostenere il nuovo senso di marcia impresso all’Europa da Macron. Il partito del presidente francese sarà molto probabilmente il baricentro del nuovo parlamento europeo. E l’“Europa che protegge” potrebbe diventare il principio guida per governare il futuro del vecchio continente.

 

 

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