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di Umberto Minopoli

 

Basta con la retorica, a sinistra, su povertà e diseguaglianze. Si sta sbagliando tutto: analisi, diagnosi e, soprattutto terapia. E alla fine ci troveremo, statene certi, con i poveri aumentati e la società più appiattita e stagnante.

 

La retorica delle diseguaglianze

La retorica sulle diseguaglianze e povertà e sta diventando, a sinistra, una sorta di richiamo, di segno distintivo, di artificio semiologico per prendere le distanze dal riformismo, dal gradualismo, dall’ottimismo sulla crescita. La tesi è quella antica e classica della sinistra massimalista: la diseguaglianza si combatte con la redistribuzione. E con il dirigismo dello Stato (governo e politica); lo sviluppo dell’economia, la crescita del Pil e una visione liberale dell’economia tendono, naturalmente e spontaneamente, ad allargare le distanze e lasciare indietro gli esclusi; la povertà si combatte redistribuendo dai ricchi ai poveri.

Questa visione è falsamente attribuita al riformismo socialdemocratico classico e al liberalismo sociale keynesiano. Una impostura.

Le ricette socialiste e il liberalismo sociale degli anni 40/70, del “trentennio” del welfare occidentale, redistribuivano quello che la ricchezza creava col dinamismo e lo sviluppo. La priorità era la crescita per redistribuire. Non la redistribuzione per stagnare. E’ il populismo che sta imponendo questa idea stagnazionista, pauperista, distorsiva della lotta alla povertà attraverso la decrescita. E la sinistra, subalterna, idealmente impoverita, priva di identità, le va dietro. Meschina.

 

L’assistenzialismo non protegge i più poveri

Fare della povertà un obiettivo redistributivo sganciato e separato dalla crescita economica, priorità assoluta, è solo retorico. Ed è inefficace e controproducente: non accorcia i divari ma li allarga; non diminuisce la povertà ma l’accresce.

Gli Stati moderni governano ormai quote limitate del bilancio pubblico. Se le dirottano verso l’assistenza invece che verso la crescita, l’economia si inviluppa e la povertà si accresce. Dirottare risorse decrescenti verso impieghi assistenziali e improduttivi non protegge i più poveri. In cambio moltiplica gli effetti stagnanti in economia. Che aumentano divari, ineguaglianze e povertà.

Costringe lo Stato a finanziare i programmi redistributivi sottraendo risorse agli investimenti e agli altri settori moltiplicativi dello sviluppo ( scuola, ricerca, università, innovazione) e mantenendo un’alta tassazione sul lavoro e sulle imprese.

 

La lotta alla povertà si fa con lo sviluppo

La lotta alla povertà si fa all’opposto: facendo della redistribuzione, dell’assistenza, della protezione un “di cui” della crescita, degli investimenti, dell’innovazione. E delle “riforme” che allarghino il lavoro,  la produttività, il dinamismo, riducano la burocratizzazione, gli impieghi improduttivi, i divari territoriali. La sinistra, ormai, non si divide più tra riformisti e rivoluzionari.

Ma tra due anime altrettante inconciliabili: quella populista, critica del riformismo e dell’ottimismo liberal-socialista abbacinata dalla predicazione pauperista e della decrescita e quella, invece, che ritiene, ancora, che il capitalismo non vada tosato con la redistribuzione di risorse scarse ma vada governato per accrescere le risorse. Con lo sviluppo. La vera e irriducibile distanza tra riformisti e populisti è tutta qui. Anche nella sinistra. Ed è bene che emerga. Anche nel Pd.

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