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di Giovanni Cominelli

 

A partire dal 1994 politici e opinion maker fantasiosi si sono inventati che eravamo entrati nella Seconda repubblica, dopo la vittoria di Berlusconi e la ristrutturazione del sistema politico secondo una logica bipolare. L’ascesa del M5S nel 2013 e il suo trionfo nel 2018 – pare un secolo fa! – ci portò d’un balzo ulteriore nella Terza repubblica. Intanto Mediaset ne ha inventato una Quarta, che per il momento è solo un talk-show.

 

La serie fasulla delle Repubbliche

A quanto pare, i cambi di Repubblica avverrebbero per cambiamento del sistema elettorale e del sistema dei partiti. In realtà, i passaggi da una repubblica all’altra sono definibili come tali solo se muta l’assetto istituzionale. Nel passaggio dalla Quarta alla Quinta repubblica francese, il sistema dei partiti è rimasto grosso modo lo stesso. Sono cambiate le istituzioni: il presidente eletto direttamente dalle urne, il governo scelto dal presidente. Il sistema elettorale – maggioritario a due turni – si è adeguato al nuovo assetto istituzionale che i riformatori avevano progettato.

Nella nostra Repubblica le istituzioni sono le stesse dal 1948. Il cambiamento negli ultimi trent’anni dei sistemi elettorali è stato usato principalmente come grimaldello per modificare i rapporti di forza tra i partiti e nell’illusione che il sistema elettorale potesse produrre un governo istituzionalmente forte. In realtà, nel 1994 non è nata nessuna Seconda repubblica dal Mattarellum e dalla vittoria di Berlusconi. I partiti hanno cambiato nome, hanno modificato il sistema elettorale, ma non hanno progettato né nuove istituzioni né, conseguentemente, nuove relazioni dei cittadini e dei partiti con le istituzioni.

Nel 2018, non è nata una Terza repubblica dal Rosatellum e dalla vittoria del M5S. Nel 2020, l’adozione di un sistema elettorale proporzionale con sbarramento al 5% non ci riporta alla Prima repubblica, semplicemente perché non ne siamo mai usciti. Poiché “nomina sunt consequentia rerum” e poiché la “res” (publica, in questo caso!) non è cambiata dal 1948 ad oggi, il nome più rispondente alla realtà della Repubblica nel 2020 è ancora e sempre “la Repubblica”. Puntiglio filologico maniacale? No. Si tratta semplicemente di comprendere perché il sistema dei partiti – tutti quanti – non vuole, e forse non può, uscire dalla Repubblica che c’è. Il ritorno al proporzionale costituisce soltanto un sintomo e una conseguenza di quella non-volontà/non-possibilità.

 

Il ritorno al sistema proporzionale ad alto (?) sbarramento

Il ritorno al sistema elettorale proporzionale si deve leggere applicando due filtri.

Il primo è quello politico-contingente: serve a impedire la presentazione all’elettorato di coalizioni vincenti, perché ciascuno è avvantaggiato ad andare da solo. La maggioranza parlamentare del M5S, PD, IV, LEU – che dopo le europee e nei ricorrenti sondaggi è data come minoranza nel Paese – ha modificato il sistema elettorale precedente per impedire che la destra di Salvini, Meloni e Berlusconi vinca le prossime elezioni. Così, come accadeva dopo ogni elezione proporzionale, tutti si potranno proclamare vincitori o perché dotati di maggiori consensi o perché ne avranno persi meno di quanto si aspettavano o perché avranno impedito la vittoria schiacciante dell’avversario. Poi, i vincitori si metteranno subito all’opera per formare un governo fragile, breve, impotente.

Il secondo filtro è quello politico-strategico: il sistema dei partiti non intende cambiare l’assetto istituzionale della Repubblica, quale progettato dalla Costituzione del 1948. Non vuole e/o forse non può. Non vuole, perché l’attuale sistema conferisce ai partiti e alle ristrette élites che li controllano poteri enormi sullo Stato politico e sullo Stato amministrativo. A partire dal CLN del 1943 fino alla Costituzione del 1948, i partiti hanno forgiato la Repubblica in modo tale da conservare a se stessi il nocciolo duro e incontrollabile del potere. E le istituzioni politiche e amministrative? Sono state partitizzate. La patria è sempre stata vissuta come “patria di partito”. La patria dei democristiani non era quella dei comunisti, la patria di Prodi non era quella di Berlusconi ecc… Perché la patria, la comunità nazionale, il Bene comune non fanno a tutt’oggi “coscienza pubblica”? Perché sono beni partitizzati.

Con una differenza: fino al 1989 i partiti “di massa”, funzionavano come un “simil-Stato”, filtravano e depuravano preventivamente le pulsioni più faziose, le persistenti tendenze populiste e ribelliste, gli spiriti più animaleschi insorgenti dalla società civile, cui la storia d’Italia non aveva dato il tempo, a causa dell’ascesa del fascismo, di “abituarsi” alla pratica della democrazia liberale di massa.

Dagli anni ’90 i partiti di massa sono diventati partiti di leadership e di opinione, con una presa maggiore nello Stato che nella società. Ciò ha causato l’aumento della volatilità elettorale, la perdita di quello che ciascun partito denominava “il nostro” elettorato. Il fallimento dei partiti? Dopo lo sconvolgimento geopolitico del 1989, il Paese aveva bisogno di una patria comune, non più attraversata dal Muro. Non gli è stato proposto di edificarla, non gli è stata fornita. Hanno costruito un bipolarismo ideologico, malfunzionante sul piano politico-istituzionale, deformato da sistemi elettorali incoerenti, che ha accentuato la faziosità e la delegittimazione dell’altro. Le istituzioni sono diventate “di parte” assai più di prima.

A intervalli irregolari, i partiti “si rifondano”, cambiano nome, annunciano sempre nuove aperture alla società civile, ai giovani, ai movimenti. Ma ciò che ostinatamente si rifiutano di cambiare è la centralità istituzionale dei partiti nel sistema politico e il loro enorme potere sullo Stato politico e amministrativo.

 

Ma forse è diventato impossibile cambiare

Sorge e cresce, tuttavia, un dubbio: qualora i partiti volessero effettivamente un cambio istituzionale, analogo a quello francese della Quinta repubblica…; qualora insorgesse un movimento di cittadini, analogo a quello referendario dei primi anni ‘90, che proponesse tale passaggio, quali possibilità avrebbe questa volontà dei partiti e/o dei cittadini di superare la bocciatura fatale della Corte costituzionale? Se i partiti fanno una legge sul referendum propositivo, quale quella approvata nel febbraio del 2019, che modifica l’art. 71 della Costituzione, la Corte costituzionale la boccerà? E se il referendum propositivo pretendesse di investire l’assetto costituzionale? La proposta di modifica dell’art. 71 non lo prevede.

Di fatto, la Corte costituzionale si pone come cane da guardia della Repubblica vigente e sbarra la strada al cambio istituzionale, al punto da bocciare persino il doppio turno. Siamo intrappolati dalla Costituzione “più bella del mondo” nella Prima repubblica, da cui non si riesce ad evadere. Così ai cittadini non è permesso di entrare nel Palazzo, di scegliere direttamente né la rappresentanza né il governo. Le reazioni di indifferenza dell’astensionismo e quelle aggressive del populismo, la domanda di “uomo forte”, la riduzione della politica a un videogame interno alle élites, fatto di polemiche incessanti e fasulle, da battute e contro-battute, da provocazioni e contro-provocazioni, sono destinate fatalmente a riprodursi in forme sempre nuove e sempre antiche.

Che costa resta da fare? Solo due strade: o un evento traumatico – una guerra? una grave crisi finanziaria? Il default dello Stato? Dio ne scampi!– o battere il ferro del cambiamento istituzionale. Poiché non è mai caldo, occorre continuare a batterlo, affinché si scaldi.

 

(Pubblicato su santalessandro.org il 24 gennaio 2020)

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