LibertàEguale

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di Giovanni Cominelli

Dopo l’accordo di Verdun dell’843 tra gli eredi di Ludovico il Pio, figlio di Carlomagno, l’unità politica carolingia si frammentò. Si aprì un periodo che gli storici qualificano come “anarchia feudale”. I tre eredi governarono per breve tempo i tre distinti regni d’Italia, Francia e Germania, ma negli ultimi vent’anni del secolo la Germania e l’Italia caddero in uno stato di disordine e di conflitti tra duchi, principi, potentati, vassalli, valvassori, valvassini… Il Papato stesso finì nelle mani grifagne della potente nobiltà romana.
Se facciamo un agile salto di oltre mille e duecento anni… il quadro italiano è straordinariamente simile.

Scriveranno gli storici: alla prova dell’ennesima peste, il Re, occasionalmente chiamato Giuseppe Conte, emanava “grida” spagnole – e qui facciamo un salto all’indietro di quattrocento anni – ma i venti Ducati locali, detti anche Regioni, vi obbedivano a singhiozzo. Oppure, a loro volta stilavano altre “gride”. D’altronde, le leggi avevano affidato a ciascuna delle Regioni il diritto di costruire un proprio sistema sanitario, per un totale di venti. Il suddetto Giuseppe Conte disponeva di una sua Scuola palatina, piena di saggi e dotti scienziati, che tuttavia aveva trovato a fatica e con ritardo una risposta univoca alla domanda se la nuova peste fosse sostanza o accidente. Alla fine fu sostanza. Sostanza, come tale ben lungi dall’essere transeunte.

Ma i sudditi-cittadini, a loro volta, che avevano tollerato a malincuore i coprifuoco decisi dalle Autorità nazionali e che i duchi locali avevano spesso subito, obtorto collo, incominciarono a pensare che il Covid fosse solo un accidente di passaggio tra l’inverno e la primavera. Con l’estate, “liberi tutti”! Qualche saggio e anche il Ministro della peste mettevano vanamente in guardia circa i pericoli di una seconda ondata. “La vede solo il governo!”, sentenziò a fine giugno il noto valvassore Salvini, da tempo in guerra elettorale per il trono. Ma chi poteva fermare gli Italiani, allegre cicale estive? Non il governo. Perché i governi sono democratici, a quanto pare, non se si assumono le impopolari responsabilità di governo, ma se assecondano domande, “diritti”, capricci dei sudditi: infatti la posta in gioco suprema è quella di vincere la prossima campagna elettorale o di impedire che gli avversari instaurino un fascismo di ritorno.

Perciò il governo si è dedicato all’afflusso abbondante delle mascherine e ai banchi con le rotelline, ma per nulla a creare una rete per il tracciamento dei contagiati, per nulla a formare gli insegnanti per la DAD, che sta tornando inevitabile. La Ministra non la vuole, perché il 75% degli insegnanti non è in grado di praticarla o non la vuole fare. Neppure i sindacati del pubblico impiego la amano.

D’altronde, nei mesi post-lockdown, guai a chi osasse sussurrare che la talpa del Covid-19 continuava a scavare. Veniva accusato di procurato falso allarme, di uso politico dell’emergenza, di comprimere le libertà democratiche. Roberto Formigoni ha appena scritto di “decreti dittatoriali”. Nicola Porro paragonava Conte a Erdogan. La Meloni parlava di dittatura sanitaria. Zangrillo: il virus è morto! Il fatto è che chi si è opposto in Parlamento e nei media alla prosecuzione di misure severe aveva dietro di sé fasce rilevanti di consenso pubblico. Confluiscono nel rifiuto della mascherina, del confinamento, delle restrizioni e dell’autodenuncia del contagio antiche italiche pulsioni: una sfiducia profonda nello Stato, nella politica, nel governo, persistenti tendenze anarco-populiste, l’ostilità ad ogni misura che mi tocchi direttamente  – è la sindrome “not in my backyard” –.

Il conflitto tra i pochi emergenzialisti e i molti lassisti si è riflesso in tutte le forze politiche e dentro tutti i circuiti istituzionali, in primo luogo nel Parlamento, roso all’interno dal Covid-19, in quello dello Stato-Regioni e dentro i partiti, che tengono in piedi il governo. Quanto a quelli di opposizione, oscillano tra la richiesta di pieni poteri, quando stanno al governo, e la difesa del lassismo anarchico, quando stanno all’opposizione.

Ed eccoci qua, mentre ci andiamo infilando dentro una nuova tragedia, con centinaia di morti ogni giorno.

Vie d’uscita, visto che la speranza sta diventando un imperativo categorico?

Il primo atto necessario è raccontare la verità al Paese, la verità sulla condizione socio-economica del Paese di fronte al Covid-19. La mediocre furbizia di centellinare la verità per centellinare la paura ha generato prima leggerezza e adesso panico. Il guaio è che il governo Conte non ha la forza di dire la verità né di trarne conseguenti decisioni di governo, sia perché diviso al suo interno sia perché assediato dall’esterno da un’opposizione che gode di molto consenso e che fa il gioco del doppio gioco: ha osteggiato il governo, quando tentava anche solo qualche timida restrizione della libertà di movimento e ora lo accusa di non aver preso sul serio l’emergenza. I partiti pensano ad altro: il Pd di Zingaretti usa l’emergenza per firmare un patto di legislatura con il M5S; Salvini e Meloni per vincere le prossime elezioni.

Il coraggio di raccontare la verità non può che nascere nasce da un patto civile e politico, da un patto costituente, un CLN contro il Covid per salvare il Paese.

Il patto costituente ha due implicazioni.

La prima, da subito: un governo di unità nazionale. E’ stato invocato più volte nel corso degli anni ’70, da Piazza Fontana in poi, e si è tentato di costruirlo con i governi di unità nazionale. All’epoca, l’appello all’emergenza nasceva dall’interno di un sistema politico bloccato, che percepiva la propria impotenza, pur disponendo di una maggioranza di governo. Ora l’emergenza è arrivata, devastante, mentre la maggioranza è debole e traballante. Il Covid è stato ed è un evento cognitivo, emotivo, socio-economico violento, che ha sconvolto in poche settimane e per gli anni a venire, le nostre vite, la nostra economia, le nostre relazioni, gli assetti geopolitici globali. Non c’è ragione perché la comunità nazionale non si impegni ad affrontarlo insieme.

La seconda implicazione: un riassetto delle istituzioni, dei partiti, dell’amministrazione. La storia insegna che il tempo delle grandi fratture e delle tragedie è il più favorevole e il più cogente per la costruzione di nuovi patti costituzionali. Si possono solo ricordare, qui, quelli statuiti nel secondo dopo-guerra in Europa, quello della Francia del 1958 e quelli dei Paesi post-comunisti dopo il 1989.

L’Italia ha pagato e sta pagando all’anarchia feudale un prezzo altissimo in vite umane, in povertà e diseguaglianze crescenti, in decrescita. Le linee del tempo della politica, delle istituzioni e dell’amministrazione e quelle della società, dell’economia e della vita sono sempre più divergenti.

Prima di arrivare ad una decisione sanitaria qualsiasi, il governo deve consultare tutti gli interessi sociali coinvolti – le forze sociali i medici, i sindacati, gli ordini professionali – i Sindaci, le Regioni, le delegazioni dei partiti di maggioranza all’interno del governo, le forze di opposizione – e poi ottenere l’approvazione del Parlamento, che prima o poi, anche usando i Decreti – oggi DPCM – deve comunque arrivare entro sessanta giorni. Una volta approvata la decisione, viene il brutto. Per renderla operativa occorre emanare decine di circolari e di regolamenti attuativi. E qui si impatta con l’alto funzionariato ministeriale e con l’inerzia dell’Amministrazione pubblica. Così si spiega, per stare sul Covid, perché i soldi stanziati non sono riusciti in questi mesi a tramutarsi in tracciamenti e terapie, in macchinari, infermieri, medici, padiglioni per terapie intensive… E intanto i contagi aumentano, la gente muore, la rabbia si gonfia, la democrazia indecisa a tutto va in rovina nelle coscienze.

L’attuale assetto istituzionale favorisce, quale che sia il governo, l’infausta convergenza tra l’anarchia individualistica e corporativa degli interessi, che politici, intellettuali e giornalisti difendono in nome della difesa della libertà e della privacy, e la debolezza dei decisori. E così l’Italia si aggira in uno spazio desolato, a metà tra Caporetto e Vittorio Veneto, e in un tempo di nessuno, tra un 8 settembre e un 25 aprile.

 

(Tratto da santalessandro.org, sabato 24 ottobre 2020)

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